Al Palazzo delle Esposizioni di Roma
Jim Dine, oggetti e pittura
Una grande retrospettiva rende omaggio a Jim Dine, l'artista americano considerato uno dei protagonisti della stagione della Pop Art. Un'avventura creativa piena di intuizioni geniali, sconfitte e naufragi
Raro che un artista, a 85 anni compiuti e una fama internazionale nella quale trovar cuccia, sia disposto a ripercorrere la tappe della sua lunga carriera, a raccontarsi e persino a smentirsi con tanta partecipazione e tanta sincerità come ha fatto Jim Dine, collaborando alla grande retrospettiva in scena fino al 20 giugno al Palazzo delle Esposizioni di Roma per la regia di Daniela Lancioni. Una presenza dietro e tra le quinte che garantisce un sapore da evento in presa diretta alla mostra e un’esperienza irripetibile al visitatore che l’attraversa, guidato dalla sua voce, come se l’ascoltasse dettare la sua autobiografia. E incoraggiato, per una volta, a sostare davanti alle opere di un autore senza altro filtro che la disponibilità ad abitarle.
Ma forse non c’era altro modo per dar conto della carriera e del talento creativo di un autore, che in ogni sua scelta, mette interamente in gioco la sua soggettività, trascinandosi appresso in ogni momento nella loro ineludibile materialità le esperienze, gli oggetti, le parole di vita del suo presente e del suo passato. Un’immersione sensoriale in una trasmigrante porosità tra consapevolezza e inconsapevolezza, razionalità e inconscio che detta persino il movimento dei suoi ricordi. La sua tavolozza di pittore: le tinte e le variazioni cromatiche cui fa ricorso rimandano alla memoria di quei barattoli di vernice industriale, quelle campionature, che da piccolo ha visto allineate nei negozi di ferramenta del nonno e del padre. La sua vocazione di scultore: non modella corpi dal vero e non si piega al culto per l’originale ma mette in posa e reinventa anatomie che gli sono diventate familiari attraverso souvenir comprati in un mercatino. La capacità di tradurre in segni pittorici persino i versi delle sue poesie: i muri usati come lavagne da una fitta scrittura in corsivo, cancellature, ripensamenti, macchie trasformate in ombre vibranti, in una stesura dal vivo con l’accompagnamento di musicisti che evoca le improvvisazioni di una jazz band.
Ogni lavoro, dunque, come un autoritratto. Giustamente la mostra inizia con una serie di piccoli ritratti fine anni cinquanta: volti ad acquarello a pennellate veloci, inquietanti nella loro ambiguità di maschere di scena, un teatrino di cui Dine è per sua ammissione unico attore. E finisce con due facce affiancate dipinte pochi anni fa: i tratti cancellati in una foschia rabbiosa, forse una confessione dell’impossibilità di fermare l’età che avanza e minaccia di cancellare il vissuto come un colpo di spugna.
L’esistenzialismo francese, rivissuto col metro programmatico dell’individualismo americano, recuperato e depurato della tentazione di virare la barra verso il nichilismo e la nausea, o precipitare in cerca di senso nell’impegno politico, nella lotta di classe. L’artista come capro espiatorio, che mette in ogni momento in gioco il suo corpo. E a volte, quando gli riesce, la sua anima.
È così, del resto, che Jim Dine inizia nelle gallerie e negli scantinati off della New York anni ’50 in cui si trasferisce, e comincia a farsi conoscere. Sulle pareti attraverso foto, filmati, commentati dallo stesso autore, la ricostruzione di quattro performances, materiali e rifiuti di discarica recuperati come attrezzi di scena insieme al suo amico e compagno di avventura Claes Oldemburg. In una Dine ricostruisce un incidente automobilistico in cui è stato coinvolto. In un’altra si lascia colare addosso secchi di colore e ingoia le vernici che gli macchiano il volto.
Esperienze che Dine si lascia alle spalle senza troppi rimpianti, quando si accorge che quelle provocazioni cominciano ad essere inflazionate, si sono trasformate in moda. Ma è un esordio che gli vale l’ingaggio tra gli artisti di serie A. E nel ‘64 lo fa incoronare alla Biennale tra i maestri della pop art. Anche se i suoi lavori esposti nell’ala del vecchio consolato americano sulla laguna lo apparentano piuttosto all’ala figurativa dell’espressionismo astratto. E la sua attenzione per gli oggetti personali e d’arredo come materiali in cui si depositano le abitudini quotidiane, offre molti punti di contatto con la nascente arte povera made in Italy, ma senza alcun messaggio di secondo grado, nessuno scivolamento nel surreale. Tra le opere che porta in mostra a Venezia c’è l’interno di un bagno, uno scorcio di pareti di un bianco laccato da cui pendono tre asciugamani. E c’è, ancora più emblematica della sua impostazione privilegiata di pittore, una scarpa da ginnastica, tratteggiata a macchie spesse di colore, un’ombra verdastra che cola su una sporgenza di legno incastonata in un fondale beige, su cui un titolo la battezza alla lettera, indicandola senza alcun equilibrismo concettuale come la calzatura che abitualmente usa.
Una miscela di oggetti e pittura che scandisce gran parte della sua produzione successiva, e rimanda comunque ad un modo personalissimo di rileggere entrambi come schegge di memoria, tracce di vissuto. Trame da aggiungere alle trame del segno o delle ombreggiature. Sia per raccontare se stesso: ecco un suo accappatoio, esposto e dipinto come un corpo decollato. Sia per parlare di altri: ecco un abito firmato dall’inventrice della minigonna incollato alla tela insieme a un profilo di gambe accavallate per evocare il modo con cui Mary Quant ha cambiato la vita di un’intera generazione.
Tra le opere di questo filone, scaglionate in sei sale in ordine cronologico, davvero indimenticabile l’impatto con un’istallazione datata 1974. Una parete di tasselli colorati, che sembrano citare i giochi di sfumature di Rothko ma evocano più semplicemente le campionature di vernici industriali dei negozi di ferramenta in cui Dine è vissuto. E sotto una parata di strumenti da artigiano o da laboratorio fai-da-te: tenaglie, raschietti, forchettone, cacciaviti, pennellesse.
Nella sala vicina trova spazio un’altra serie di opere di grafiche e di pittura, che ruota sul leit motiv del cuore, nulla di cerebrale, solo cuori stilizzati rivisti con la fantasia di un bambino. Tavolozze di colori vivacissimi e quasi stridenti, volutamente prive della perfezione formale che impagina le colature e i graffi dell’action painting. Anch’esse ravvicinate alla realtà da incastri mirati di oggetti: scarpe, abiti, una sega.
Tecniche di assemblaggio e contrasti cromatici che caratterizzano anche il suo modo di attraversare la scultura. Cancellate costruite con un’addizione di oggetti, souvenir, statuine da mercatino delle pulci. E poi tre grandi sculture in legno: omaggi alla Venere di Milo sottratte al letargo algido dei musei da una sovrapposizione di utensili che spuntano loro come feticci di parti dal grembo.
A fine percorso, un’intera sala dedicata a Pinocchio. Otto burattini intagliati nel legno in varie pose. Anche qui il modello non è il personaggio di Collodi, libro che all’epoca Dine non aveva ancora letto, ma il Pinocchio del film di Walt Disney uscito in sala nel 1944, un ricordo lontano di quando aveva sei anni, ridestato da un bambolotto trovato su una bancarella.
Belli, brutti? Inutile chiederselo. Come ogni artista anche Dine, accusa evidenti cadute di stile, perdite d’innocenza, manierismi. Come ogni vita, anche la sua, conosce sconfitte e naufragi.