Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Inevitabile Trump?

I democratici Usa hanno parecchi motivi per temere una sconfitta a novembre: le loro divisioni interne, la capacità di Trump di attribuirsi successi inesistenti e la stretta della Casa Bianca sulle istituzioni indipendenti. Riusciranno a capirlo?

Con una parola inventata da George W. Bush in occasione delle controverse elezioni del 2000 quando competeva con Mc Cain che incoraggiava a non misunderestimate (una sorta di elisione tra underestimate=sottovalutare e misunderstand=fraintendere che viene a significare mal sottovalutare) le sue capacità, si potrebbe consigliare ai democratici di fare lo stesso con Trump, visti gli eventi degli ultimi giorni. La possibilità che Trump venga rieletto, infatti, diventa ogni giorno sempre più reale. E questo sembra confermato almeno da tre ordini di motivi

Innanzi tutto la situazione dei democratici. L’appena passato caucus dello Iowa i cui risultati sono arrivati con giorni di ritardo e l’ondeggiare delle primarie tra i troppi candidati democratici non depongono certo a favore di una vittoria nella prossima tornata elettorale del partito democratico. Che si mostra diviso, con una strategia ondivaga e con una organizzazione a dir poco discutibile. I risultati del caucus dello Iowa che hanno visto di poco margine la vittoria del moderato Buttigieg sull’estremista Sanders contraddicono quelli del New Hampshire dove Sanders ha sbaragliato gli avversari e dove c’è stata una flessione di Biden (più conservatore) e di Warren (come Sanders radicale). Ciò ovviamente getta una luce di ambiguità sulla direzione che i democratici intendono prendere. Vedremo adesso come andranno le primarie della South Carolina il 29 febbraio, dove i repubblicani hanno già annunciato che voteranno, vista la possibilità per tutti di accedere ai seggi elettorali, per quello che ritengono il candidato più debole solo per creare confusione e ulteriori difficoltà. Il Super Tuesday del 3 marzo, in cui la maggioranza degli Stati terranno le loro primarie o i caucus, dovrebbe contribuire tuttavia a fare luce sull’eventuale direzione che i democratici intendono prendere.

A questi eventi si deve aggiungere il discorso di Trump dello State of the Union il 4 febbraio scorso. Lo show iniziale si è aperto con uno scambio di scortesie tra la speaker della House Nancy Pelosi e il presidente che non ha stretto la mano della politica democratica; a ciò Pelosi ha risposto stracciando in due, con un gesto plateale, il discorso che le era stato appena consegnato. Il che dà immediatamente un quadro di come la polarizzazione della battaglia politica abbia raggiunto limiti mai visti prima, con un chiaro vantaggio di chi il potere lo detiene.

Al teleprompter Trump non ha obbedito interamente e ha proceduto con sicurezza e sicumera, ben sapendo che il giorno dopo i senatori repubblicani lo avrebbero fatto assolvere dalla procedura dell’impeachment che si votava in Senato. Ha quindi magnificato i suoi successi dall’economia e l’abbassamento della disoccupazione anche tra le minoranze, nera e ispanica, accusando la precedente amministrazione di errori e incompetenza. Ha inoltre affermato che con lui la borsa è arrivata ai suoi massimi, che il mercato ha raggiunto livelli mai toccati prima e che la fiducia dei consumatori non è mai stata così alta. Ha parlato dei suoi risultati in politica estera da quelli con la Cina, a quello di avere sostituito il trattato NAFTA, siglato da Clinton con il Messico e il Canada, con un nuovo trattato più vantaggioso per gli Stati Uniti. Si è schierato contro il leader Maduro definendo il presente in sala, Juan Guaido, come il vero e unico presidente legittimo del Venezuela. Ha parlato dell’aumento delle spese militari con armi tutte prodotte in patria e della richiesta ai paesi della Nato di aumentare i loro contributi. Senza entrare nei dettagli, è stato un discorso che lo ha fatto apparire relativamente e stranamente presidenziale anche se i giudizi di valore sul suo operato, come sempre gli accade, ci hanno riportato a una realtà che mette in evidenza le sue abilità personale, piuttosto che i risultati per il bene del paese. Inoltre ha arricchito il suo discorso con piccoli zuccherini come la possibilità data a una bambina nera di scegliere la scuola di suo gradimento, o a un militare di carriera di stanza in Medioriente di tornare di sorpresa a casa. Ma quello finale è stata la medaglia della Libertà, una delle più alte onorificenze del paese, conferita dalla moglie Melania all’amico Rush Limbaugh, icona radiofonica che ha sposato di frequente crociate reazionarie soffiando sempre sul fuoco della provocazione e che poco prima aveva annunciato di essere malato di cancro ai polmoni. Poi sono seguiti twitter e un comizio in cui il presidente ha ripreso i suoi toni velenosi e demagogici che tanto piacciono ai suoi supporter e non solo, continuando a sputare veleno sui democratici accusati di avere ordito il gigantesco inganno (hoax) dell’impeachment contro di lui, solo nel tentativo di uscirne vincitori. E come si sa la carta della vittima vince sempre.

Infine c’è un terzo elemento molto pericoloso che dovrebbe far stare in guardia non solo i democratici, ma tutti coloro che, indipendentemente dal credo politico, abbiano a cuore la democrazia, a cominciare proprio dai repubblicani. Il presidente ha criticato la condanna fino a nove anni di Roger Stone, personaggio di dubbia reputazione che nel Russiagate ha giocato un ruolo importante, definendola “orribile e ingiusta”. Dopo di che il Ministero della Giustizia ha chiesto una riduzione della pena indirettamente forzando i quattro giudici preposti al processo a dimettersi. E non serve la sceneggiata del Ministro della Giustizia che dopo il twitter di Trump reclama indipendenza: “Non mi farò bullizzare o influenzare da nessuno (…) che si tratti del Congresso, di un giornale o del presidente”. Ormai il danno è stato fatto. Il potere esecutivo è entrato a gamba tesa su quello giudiziario forzando le dimissioni di alcuni servitori dello Stato. E questo è un precedente mai registrato nella storia della democrazia americana.

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