“Il paese nascosto” di Luca Nicoletti
Il piccolo guardare
Spazi del cuore, luoghi che nel battito di uno sguardo vivono in un respiro comune … Firenze, la riviera adriatica, la Valconca. La poetica dell’autore si nutre di tutto ciò che lo abita, di illuminanti scenari, persone, percorsi di vita. E il minuto si fa universale, alla ricerca di una armonia superiore
Con il libro la Comprensione del crepuscolo del 2015, Luca Nicoletti aveva evidenziato sicure qualità. Ora, con la raccolta Il paese nascosto, peQuod editore, la sua maturità poetica ci appare più delineata, nel senso di un passo in avanti, stilistico e tematico. Una maturità sicuramente derivata da approfondite riflessioni sul fare poesia, favorite anche dall’incontro con vari poeti, in qualità di direttore artistico di un importante festival di poesia presso il bellissimo piccolo teatro di San Giovanni in Marigliano, centro romagnolo che si definisce “Città della poesia”. Poi di sicuro ci sono vaste letture, messe a confronto anche con altri presso il Cenacolo Casa Luisa, interessante esperienza di una comunità di lettori (ma anche alcuni valenti scrittori), dove la lettura e l’approfondimento dei testi sono un’abitudine settimanale. E di queste letture in Il paese nascosto si vedono le tracce, diciamo da Montale a Sereni a Luzi fino a, per stare nell’attuale momento, Broggiato e Cucchi. Quindi, oltre alla sicura vocazione, ecco la precisa misura, la cura del verso, la pulizia del dettato. Uno slancio poetico quello di Nicoletti, sottolineato da Giancarlo Pontiggia che nella bella introduzione, un vero e proprio saggio, circostanziato e profondo, pone in evidenza i vari registri dell’autore, compresa «la dimensione civile della parola, così cara al poeta, che non può che confrontarsi con il destino dell’uomo, con quello sguardo celeste che gli è connaturato, e che lo definisce fin dal suo apparire storico».
Quando scrissi a suo tempo di Comprensione del crepuscolo, auspicavo che l’autore insistesse nell’incunearsi nei meandri di quella geografia fisica che gli sta attorno e lo abbevera di illuminanti scenari e di persone, tutto ciò che lo ‘abita’ e che è poi sicuramente la venatura più certa della sua anima e del suo percorso di vita. E così è stato, per quanto le suggestioni che il libro favorisce siano molteplici. Diciamo intanto che è necessario collocare anche praticamente il discorso, nel senso che quella geografia che richiamavo ha precise indicazioni, precise coordinate fisiche, ambientali ed emozionali. I luoghi in questa poesia hanno infatti un peso decisivo. Nicoletti (nella foto) vive in quella sinuosa linea di mare riversata sull’arenile sfiorato da una lieve malinconia che segna il cuore, per quanto la riviera adriatica e Riccione, siano vissute universalmente come macchine incessanti di gioco, di allegria, di avventure e di eccessi. Alle spalle di questa squillante vetrina vi è il pacato e armonioso territorio collinare, la tiepida e dolce Valconca (la terra amata da Dante: «tra i due liti d’Italia surgon sassi / e non molto distanti a la tua patria…») che ha timbrato molti suoi versi, ricordata da subito in una bella poesia che apre il libro: «San Clemente prelude / ad un passaggio alato: nessuno crede / alle poche case di Agello / ma la via per San Savino emerge / dal profondo, scrive sul declivio / altre parole, risolve il nome, e l’assonanza / nella metrica dei campi». Luoghi come un battito che nell’armonia di uno sguardo si coordinano con l’acque ondulate del mare, e che nel loro occhieggiare reciproco vivono in un respiro comune e portano a generanti visioni («l’Adriatico, come un sogno ricorrente / e la Valconca divina, abissale, sterminato istante»). E furono questi due spazi del cuore che ispirarono Rosita, la madre del poeta, eccellente e nota fotografa, che vive come una misurata ombra nell’opera di Nicoletti, ma che a differenza della raccolta precedente, appare una immagine più sfuocata, più rarefatta, pur essendo sostanza di un amore profondo.
Il mondo del poeta è questa finestra spalancata su due fronti (sì c’è anche Firenze, ma vale solo come un accenno, un ricordo, un periodo vissuto o come un confronto con la complessità di alcune pitture, che richiamano alla vita e alla morte). Eppure questo ‘piccolo’ guardare è ciò che più diviene universale, come sosteneva il quasi conterraneo Volponi, però urbinate, e da me spesso ricordato perché eccellente narratore e poeta (ma possiamo anche ricordare a questo proposito García Márquez con la minuta Macondo). L’autore ci pare alla ricerca di una superiore armonia, che sia generale, non solo personale, e segue le vicende, grandi o minute, con l’apprensione di un bambino, nella convinzione che questo sia anche il compito della poesia: «Unire i puntini, mettere in relazione / due cose distanti più di quattro universi», stupito dai muri che infrangono le coscienze, mentre nello spicchio di terra e di mare dove allena lo sguardo, l’anima, richiama altri scenari, come quel paesaggio che «ci ha incontrato, / il suo dono favoloso è stato questo».
Come osservare le stagioni e la natura. I ritmi stagionali si stagliano con straordinaria efficacia nella poesia di Nicoletti attento a seguirne con rabdomantica precisione i mutamenti, così come guarda il senso nascosto delle piante nel loro volgere continuo («I rami del giardino / della casa dove abitavo / vorrebbero dirmi tante cose, / me le stanno dicendo») e il flusso delle persone, che dal vorticare inesausto delle estati giunge allo sfibrante, sospeso intervallo invernale, che l’autore segue con certosina attenzione e ‘misura’ con infinita pazienza («Tra un mese spariranno tutti / i pensieri e le persone / passate sul palco di questa lunga estate / …/ lasciando la scena ai fantasmi / delle notti e dei giorni, dei giorni / che pure non finivano mai. / Spariranno, nei mesi dell’inverno / e io con loro»), nella tuttavia evidente impossibilità di giungere a capo di una così continua non modificabile situazione, come fosse l’agrimensore kafkiano. Ed è tutto ciò «quella sostanza di paesaggio o di una materia stagionale, che è qui una pioggia minacciosa, il patire di una pianta», come dice assai bene Pontiggia. E tale incrocio delle stagioni, questo volgere delle estati, nella roboante riviera dove tornerà il caldo, è il pendolo assillante che fissa l’occhio dell’autore (come fu l’occhio di Bigongiari ai luoghi del suo andare tra Pescia e Lucca), il punto destinale, lo scandire del cuore, quando «il caldo è ritornato, / ma ormai è tardi, è tutto cambiato. / La notte anticipa due minuti al giorno, / l’estate finge una giovinezza che non ha…/ a poco serve questo trucco, c’è caldo e afa / ma il conto è cominciato».
Del caldo «tornerà solo una parte» e l’altra parte è scomparsa ed è impossibile ritrovarla, nonostante una folla indistinta di persone o di fantasmi, dicano: «Luca, aspetta, non senti? / Luca … possibile? … non ti ricordi?». Perché questa viscerale presenza nella linea di terra che dà sull’eterno mare ci rende prigionieri di tramonti, maree, rumori continui, passeggiate sull’arenile, ore e ore di sguardi a un orizzonte mancato, e bagni e giochi infantili, gioie e ricordi, malinconie diffuse, parole inespresse, anni, minuti, secondi consegnati allo sciabordio dell’onda, così viviamo, ci avverte Luca Nicoletti, lo scandire del tempo e dell’esistenza, come scrive in questi bei versi: «felici e giunti a tanto… così sembrava, / ci si illudeva, ci si illude nel vedere un giorno, / un’origine, quando sembra, finalmente, il nostro / mondo, il nostro tempo, e ci troviamo a camminare / sulla spiaggia, la nostra indagine cercando le conchiglie, / seguendo ancora quel richiamo…».
(Nella foto vicino al titolo: Carlo Carrà, “Marina”, 1942, particolare)