Il dibattito su arte e conservazione
I musei e Instagram
La ristrutturazione del Macro e le celebrazioni per i dieci anni del Maxxi ripropongono un grande tema: a che cosa serve un museo? A capire e ad entrare nelle ragioni dell'estetica oppure a guardare (come facciamo con i social)?
Su Repubblica Francesco Bonami, un divulgatore e curatore titolato e smagato, tra i pochi capaci sulla piazza di maneggiare un linguaggio per non iniziati, ha pubblicato un articolo che offre molti spunti di riflessione a chi segue le vicende dell’arte e del mondo di oggi e non riesce a raccapezzarsi. Riflessioni che si intrecciano con il presente e il futuro di due musei romani: il Macro che si appresta a rinascere sotto una nuova gestione e il Maxxi che ha festeggiato i dieci anni di attività. E che puntano a trovare ricette, bussole e appigli per accettare e sfruttare le dilatate possibilità di comunicazione dei social e del web, senza buttare a mare l’idea o la voglia di un trovare argine ragionevole ai miraggi che questa sbornia mediatica mette in circolo. Il sogno, la speranza di consegnare a chi verrà un futuro migliore, più umano.
Il titolo dell’articolo di Bonami, «Come difendersi dall’arte di Instagram», mi ha colpito perché rimanda a una domanda che ho provato a sollevare, proprio su questa testata, su una delle novità annunciate dal nuovo direttore del Macro: l’idea di rinunciare a mettere direttamente in vista, sia pure a rotazione, le opere presenti nella collezione del museo, sostituendole con le loro fotografie. Perché? Così fa Instagram, la risposta.
Lo spunto da cui invece parte Bonami è un altro. Una mostra in una galleria di Los Angeles organizzata con dipinti selezionati attraverso la galleria virtuale di Instagram, da un critico, Olivier Zahm, bulimico esploratore dei social, che si interrogava sulla sopravvivenza della pittura e sulla capacità di narrazione e seduzione delle sue icone sommerse nel mare infinito e indistinto di immagini che circolano in Rete. Per titolo, una citazione ottimistica a slogan, «Dipingere è amare ancora», che registra l’assillo di chi oggi tenta ancora di fare mercato e catturare l’interesse di un pubblico di massa, disorientato dal lunapark da funamboli dell’arte di oggi e rimasto aggrappato alla tradizione: quasi scomparsa nelle kermesse internazionali la pittura è da qualche anno richiamo dominante delle maggiori fiere italiane, a Bologna, Torino, Milano.
Il risultato della mostra americana è, secondo Bonami, sconfortante. Più che probabile: la disattenzione del sistema per la pittura e il bombardamento del kitsch e del pop che caratterizza la produzione sui nuovi versanti, ha impoverito la critica e abbassato il livello del gusto, resi indefiniti i confini del mestiere. Insomma circolano, camuffati da narrazioni ambiziose e alla moda tanti lavori pittorici sciatti e di maniera. Ma non sarà anche colpa di critici da pensiero debole come lui se tutto può essere arte e dunque nulla lo è.
Interessante comunque il capitolo che Bonami introduce con una seconda dubbiosa domanda. Non è forse sempre stato così? Dimostrazione del teorema: i grandi artisti e i grandi pittori in particolare sono sempre stati pochissimi. Nei grandi musei prima di arrivare a vedere quei cinque o sei capolavori senza tempo dobbiamo attraversare sale piene di artisti minori, dipinti di scuola. Instagram non da certificati di qualità, ma ci consente senza fatica di vedere più cose e più arte e magari «scoprire cose sconosciute belle e interessanti». «Grazie a Instagram – conclude Bonomi – possiamo evitare di innamorarci delle persone che già dal loro profilo non ci piacciono, così come possiamo evitare di andare a vedere mostre che già dai post fanno rabbrividire… Detto questo, quando uno si trova davanti alla Primavera di Botticelli non c’è post che possa far provare la stessa emozione».
Così la pensa Bonami. Forse è solo snobismo questo predicare la scappatoia alla fatica di un’esperienza in presa diretta, come se conoscere una persona o un quadro non imponesse fatica; questo ridurre la cultura ad una storia di sole eccellenze, come il parmigiano o l’alta moda, ignorando le sviste, gli errori che le oscillazioni delle società e del gusto comportano. Ma sembra tanto una cinica rassegnazione da privilegiati che si adeguano al mondo e al presente com’è. E il guaio è che questo modo di pensare e di imporre, in assenza di verità possibili e alternative, il proprio tornaconto e il proprio pensiero, è comune a molti curatori e intellettuali del suo stesso giro, che, senza scomodare chi lo pilota davvero, decidono chi deve salire sul carro e dove deve andare il sistema dell’arte, sul quale hanno costruito le loro carriere o alle cui mode si accodano, camuffandosi ora da apocalittici ora da integrati.
Un modo di procedere che produce danni e derive pericolose. Come quella che riguarda i musei. È vero, sono istituzioni nate in altri tempi, invecchiate anche quelle destinate al contemporaneo, che vanno adeguate e rimodellate. Una gara a definire i terreni che devono abbandonare, che però sembra ignorare come irrilevanti i principi che i musei debbono conservare e difendere. Ricorda la strumentale rincorsa riformista che ha investito la fragile politica del giorno per giorno e annacquato conquiste di civiltà come la nostra costituzione o la Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Certo i musei d’arte devono essere luoghi sempre più accoglienti e aperti a un pubblico ampio e variegato. Se possibile gratuiti: ogni passo in questa direzione va sostenuto. Ma non possono rinunciare al loro compito primario di luoghi destinati – come dice una recente formulazione dell’organismo che rappresenta la rete mondiale dei musei – a raccogliere, conservare, studiare ed esporre documenti e materiali che consentano di rileggere nel suo evolversi la memoria collettiva e la storia di un paese o di un singolo territorio. Non gallerie di immagini ma di vita tangibile, emozioni e stupori, anche se nel loro dovere di informazione e comunicazione i musei debbono servirsi di strumenti virtuali. E neppure – come la fa facile Bonami – scrigni di soli capolavori: impossibile capire la genialità di Botticelli e altri grandi maestri se si esclude il contesto di relazioni e scambi, debiti, crediti e furti, in cui è maturato il loro talento. Le opere d’arte, comprese quelle considerate minori vanno studiate e abitate dal vivo, anche per rimettere in discussione criteri di valutazione comunque datati. Ecco perché il rilievo di un museo è strettamente legato all’importanza delle sue collezioni e alla capacità di esporle, studiarle e valorizzarle mettendole a confronto con opere di produzione più recente. I depositi non sono prigioni. O uno scomodo e vincolante fardello. Ma risorse da arricchire con continuità, investimenti per il futuro. Tornando al Macro, è questo declassamento che segna in negativo l’esperienza della ultima precedente gestione e il progetto della nuova appena presentato. De Finis ha usato le opere nei depositi – una raccolta sicuramente lacunosa, ma tutte lo sono – come decorazioni da fondale. Il successore Luca Lo Pinto vuole rimetterle in vista come fotografie, per reggere il passo con la concorrenza e la filosofia di Instagram. Nessuno dei due mette sulla bilancia il dubbio che intaccandone alle radici uno dei suoi fini istituzionali, invece di restituirgli identità, si rischia di uccidere il museo.
Un pericolo che invece ha correttamente sventato l’altro museo gemello, Il Maxxi di via Guido Reni, nato anch’esso dieci anni fa. Altro perimetro istituzionale, lo Stato e non il Comune. Altri doveri di rappresentanza. Altra macchina, uno spazio reinventato dall’archistar Zaha Hadid, meno duttile di quello del Macro ma tre volte più ampio. Altro budget a disposizione: una dotazione annua, raddoppiata quest’anno dal ministro Dario Franceschini, di 13 milioni, assorbiti per il 40 per cento dalle spese di funzionamento e per il 60 per cento investiti in attività.
Eppure lo stesso problema di partenza: costruire dal nulla una propria collezione. Problema che il Maxxi, sotto la guida di Giovanna Melandri, ha affrontato con più coerenza e in modo completamente diverso. Continuando nel tempo – sia pure con qualche alto e basso – ad arricchire la propria raccolta, a colmarne i vuoti, facendone una leva privilegiata della sua offerta al pubblico. Da tre anni molte delle opere in magazzino (530 d’arte, migliaia di cimeli e documenti di architettura) sono esposte in rotazione al primo e secondo piano, in sale aperte gratuitamente al pubblico per quattro giorni a settimana. Il risultato è che il numero di presenze è aumentato del venti per cento. Poi, certo, c’è stato il richiamo delle mostre e dei progetti speciali (oltre duecento nel decennio), i 2000 appuntamenti culturali in cartellone, le oltre 5000 iniziative educative e di formazione, le produzioni portate in trasferta all’estero. Ma l’uso, l’incremento e la valorizzazione delle collezioni, è stata se non la carta vincente, quella più qualificante. Opere e cimeli messi in vista dal vero, senza ricorrere alle gallerie virtuali di Instagram. Come quelle, commissionate per l’occasione a 5 artisti italiani di prima fila e a un’autrice russa, con cui ad aprile il Maxxi aprirà la sua nuova sede all’Aquila, in uno splendido palazzo d’epoca restaurato a tempo di record.