Visto al Teatro Eliseo di Roma
Gli ebrei di Miller
Torna "Vetri rotti", un testo accidentato e complesso di Arthur Miller sull'identità ebraica e i suoi tormenti (non solo storici). Un'occasione ghiotta per una curiosa coppia di ottimi attori: Elena Sofia Ricci e Maurizio Donadoni
Nel 1994 Arthur Miller scrive Broken Glass (Vetri rotti): affronta il tema del semitismo, filtrato attraverso lo sguardo di un americano colto e raffinato quale è sempre stato, quasi per liberazione delle ripercussioni subite sulla propria pelle agli inizi della sua carriera, in quanto rampollo di una famiglia ebrea benestante. Semitismo, termine coniato e decodificato nel XIX secolo, come forma di persecuzione razziale alla popolazione discendente dal mitico Shem, figlio di Noè e capostipite della popolazione Semita, la parola in realtà oggi non dovrebbe avere più alcun significato, eppure siamo ancora qui a discutere sulle etnie o sulle razze privilegiate. Il tema principale nel sostanzioso dramma, attraverso una serrata scansione degli avvenimenti in undici scene, è quello di come un ebreo americano possa aver vissuto e tollerato – oltreoceano – il grande affronto all’umanità compiuto da alcuni tedeschi impazziti attraverso l’Olocausto ai danni della popolazione ebrea che deteneva il potere politico ed economico in Germania.
I coniugi Sofia e Philip Gellburg, sono degli ebrei benestanti statunitensi di base a Brooklyn, siamo nel 1938, sposati da un bel po’, con un figlio in carriera militare, hanno un grosso problema da risolvere: la bella Sofia a seguito della Kristallnacht, notizia appresa attraverso la stampa, improvvisamente, progressivamente perde l’uso degli arti inferiori, a prenderla in cura è il dottor Harry Heiman, anch’esso di origini ebree. L’uomo tenterà fiducioso una terapia analitica, scoprendo vecchi e antichi segreti che hanno lacerato, dilaniato, allontanato inesorabilmente la coppia. Alla radice della problematica coniugale c’è un sentimento di ribellione circa quell’appartenenza così pesante e influente. I due coniugi rispettivamente avvertono un senso di responsabilità, impotenza, per quell’origine che li fa da una parte appartenere orgogliosamente a una comunità storicamente importante, ma dall’altra li fa sentire esclusi da una società laicale che va evolvendosi in tutt’altra direzione.
I vetri rotti del titolo, oltre che ricordare i vetri frantumati dalle truppe delle SS nella notte fra il 9 e il 10 novembre, in Germania, in Austria e Cecoslovacchia, ai commercianti ebrei, rappresentano anche lo sgretolarsi della personalità della protagonista: un lavoro perso, un figlio lontano. In una caduta senza limiti, coscientemente porterà il proprio rapporto coniugale ad una inevitabile rottura. E a nulla di risolutivo condurranno un infarto che relegherà il povero Philip a letto e il suo licenziamento: un’ulteriore frattura si creerà nel loro rapporto. Solo la morte porterà purificazione e salvezza: la donna riuscirà a guarire del tutto solo riallacciando i fili con quel passato scomodo e ingombrante.
Vetri Rotti, tradotto da Masolino d’Amico, dopo una prima messinscena italiana degli Anni Novanta, ritorna felicemente in scena al Teatro Eliseo di Roma fino al 16 febbraio con la bella regia di Armando Pugliese e la singolare interpretazione di Elena Sofia Ricci che regala alla sua Sofia una umanità straripante, personaggio in bilico tra i suoi sentimenti contrastati viene decifrato dall’attrice con rattenuta e prepotente interpretazione, in una commovente fusione di intenzioni chiare e cristalline
La regia di Pugliese isola il dettato drammaturgico in un impianto neutro, con la complicità del suo scenografo Andrea Taddei, in uno spazio quasi intermedio, fra il realistico e l’astratto, sollevando l’azione su di un praticabile all’antica italiana, delle seggiole di antica foggia che decifrano l’esiguo arredo scenico. Ma ciò è solo un punto di partenza per un taglio cinematografico scrupoloso. I pochi personaggi sono messi a fuoco con sfumature tutte diverse fra loro tali da narrare uno scavo profondo, che rispettivamente riflettono sia le ombre private che quelle della Storia.
A quale razza speciale di attore Maurizio Donadoni appartiene? In quale categoria si può relegare? Un attore dalla tracotante fisicità che pure gestisce con una padronanza esemplare. Leggero, fantasioso, autoironico, infantile, potente. La sua prova è davvero mirabile e centrata: Philip Gellburg sembra non poter avere altro interprete se non lui. In scena con i due protagonisti anche un ottimo David Coco, elegante, brillante, nel ruolo del dottor Harry Heiman, che ha dalla sua anche una vaga somiglianza con il suo capostipite Sigmund Freud. Elisabetta Arosio, Alessandro Cremona, Serena Amalia Mazzone completano il buon cast.
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Le fotografie sono di Mario D’Angelo