Al Teatro Le Sedie di Roma
Paura da morire
Daniel Dwerryhouse porta in scena un racconto esemplare di Federico De Roberto dedicato alla condizione estrema (in tempo di guerra) in cui l'alternativa è obbedire o disertare. In ogni caso, l'epilogo è la morte
Transita un racconto di Federico De Roberto nella saletta de “Le Sedie”, un teatro romano che sembra parigino e che Andrea Pergolari dirige con grande sensibilità artistica. Un racconto così importante da dare il titolo alla voluminosa raccolta di testi dell’autore catanese che Garzanti pubblicò nel 2015: La paura e altri racconti di guerra. Quella ventina di pagine era andata in stampa nel 1921, suscitando nei colti lettori dell’epoca un senso di smarrimento morale. Identica reazione ci hanno indotto il difficile adattamento e la sobria regia di Francesco Bonomo per il monologo di un ottimo Daniel Dwerryhouse (produzione “Sardegna Teatro”). Pratese di nascita e isolano di adozione, l’attore deve il suo cognome al romantico incontro, su una nave da crociera, tra un pianista di Blackpool e una ragazza toscana, suo padre e sua madre. Quegli anni Settanta in cui la libertà delle emozioni vinceva su tutto sono oggi esattamente a metà tra il nostro tempo di ansie e di colpe e il quinquennio di follia che avrebbe ucciso dieci milioni di ragazzi e altrettanti ne avrebbe mutilati e segnati per sempre.
Di questo orrore, tra gli altri, anche Federico De Roberto si sarebbe accollato la sua piccola responsabilità di grande letterato incosciente, poiché egli era stato un fulgido interventista, partecipando per una sorta di noia umana a quel mesto coro di energici igienisti che definirono guerra l’auspicio di un risanamento mentale dell’umanità. Esercizio di inettitudine intellettuale che, per amor di verità, in Italia subirà la profezia di artisti tanto geniali nelle loro opere quanto mediocri e penosi in quella loro distorsione retorica di concetti poverissimi. E sebbene De Roberto non avesse avuto accesso alla corte futurista, ne avrebbe avvertito il lontano fascino con un pizzico di provincialismo. Salvo ammettere il suo ripensamento due anni dopo, e nero su bianco narrare di un plotone a difesa del Forte di Punta Corbin (a ovest dell’altopiano di Asiago) e di una trincea dove stanno dei soldati di ogni dove, tranne che italiani convinti. La loro esistenza sembra piombata in quell’identica situazione che, tra il settembre del 1939 e il giugno successivo, sarebbe venuta a crearsi sul fronte occidentale, tanto che i tedeschi l’avrebbero denominata komischer Krieg e i francesi drôle de guerre. Anni prima, a quella nostra babele in esercito posta in un luogo particolarmente ostico, il protrarsi della finzione bellica era apparsa salvifica, fino al mattino in cui qualcosa cambiò.
A presidio di una piazzuola di avvistamento, il tenente Alfani spedisce un pugno di giovani che, uno dopo l’altro, subiscono un mortale cecchinaggio, finché il sesto, il soldato Morana, disubbidisce al comando suicida del suo superiore. In realtà Alfani dubita a sua volta della sensatezza di quell’ordine ma non può altro che sostenerlo attraverso dei goffi ragionamenti. E così, incautamente, stringe Morana tra due destini orribili: la fucilazione dei carabinieri o il colpo mortale degli ungheresi…
«Afferrato allora il riluttante con le due mani per le spalle, Borga lo scosse forte: “Di’, vôi, come l’è che femm?” Improvvisamente gli occhi di Morana lampeggiarono, mentre il corpo si torceva per sottrarsi alla stretta: “Ecco… così…” E prima che nessuno avesse il tempo di comprendere che cosa volesse dire, che cosa stesse per fare, corse lungo il fosso fino al cunicolo, si chinò ad afferrare il moschetto, ne appoggiò al ciglio di fuoco il calcio, se ne appuntò la bocca sotto il mento e trasse il colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del parapetto.»
Così termina un racconto epocale. In poche battute De Roberto incide a fondo su molte ferite aperte. Qual è la sostanza del comando, se non quella di costringere all’altrui obbedienza? Qual è la realtà del cameratismo, se non quella di sopravvivere a condizione che nulla si muova? Qual è l’essenza della paura, se non quella di celarla tra gli stati di attrazione e di repulsione oppure di dare a essa un esito estremo?
Morana è costretto a ubbidire. Disubbidisce. Non può. Disubbidisce egualmente. Non può egualmente. Nessun commilitone sostiene il suo ammutinamento. Un solo atto libero gli arride ed egli lo compie. Si uccide. Il soldato Morana non muore da eroe. Eppure si è ribellato a un ordine che gli intimava di andare a morire. Si è rifiutato di morire uccidendosi. In questo paradosso della paura, l’eroe nega e supera la sua stessa vigliaccheria riaffermando il diritto di sopprimere se stesso prima che altri lo facciano in vece sua. Morana è morto lì, nel Forte di Punta Corbin, dove era scritto che sarebbe morto. Lo ha fatto contravvenendo allo stolto ordine di un tenentino dubbioso. È stato un eroe o è stato un vigliacco? Vi è una risposta della guerra a una questione di cosi vasta portata? Noi possiamo immaginare quanti poveri ragazzi con qualsiasi divisa indosso abbiano messo fine, con un gesto gravissimo, alla loro paura. Della Grande Guerra conosciamo i numeri. Su di essa possiamo ragionare, chiederci a quanti secoli di storia essa pose termine; quale nuova Europa ridisegnò; cosa significò, da quell’esito in poi, vivere in un continente privato della Russia; quanto ci costò in termini storici, culturali e politici avere chiesto e ottenuto il sostegno americano… E cosa sarebbe davvero avvenuto se il Regno d’Italia non avesse ascoltato le pugnaci invocazioni di troppi cretini in nome di Trento e Trieste… Se dunque fossimo rimasti neutrali? Il fascismo e il nazismo sarebbero mai nati?
La Paura genera molte domande senza risposta. La Paura è quello stato dell’essere da cui è difficilissimo affrancarsi, perché ci difende da quel che abbiamo sempre ignorato. Ed era altrettanto complicato non temere un testo così definitivo come quello di Federico De Roberto. E vestire con la passione immedesimata di Daniel Dwerryhouse la divisa del Tenente Alfani, di uno dei tanti che si sarebbe perduto in una traccia di oblio perpetuo. In una storia italiana, come al solito, scritta male, riletta peggio e finita malissimo. Tutti assolti perché il fatto non sussiste.