Visto a Arte Fiera di Bologna
L’automobile che guarda
Il nuovo spettacolo di Romeo Castellucci trae spunto dalla filosofia di Ernst Bloch: un'automobile rovesciata gira a vuoto in un immenso garage. È una metafora della nostra incapacità, ormai, di comunicare
L’ultima, salutare provocazione della Compagnia diretta da Romeo Castellucci nei confronti dei linguaggi rassicuranti del teatro tradizionale è La Vita Nuova che abbiamo avuto modo di vedere in Prima Nazionale, in uno spazio post industriale, in occasione dell’ultima edizione bolognese di Arte Fiera. Questo iconico lavoro teatrale, che aveva debuttato nel 2018 al Kanal-Centre Pompidou (Bruxelles) – ed era stato ospite di diversi Festival europei tra cui Wiener Festwochen di Vienna, Hellenic Festival di Atene, Passage Festival organizzato da Helsingør Teater e il Festival d’Automne a Parigi – trae ispirazione da Lo spirito dell’utopia del filosofo Ernst Bloch.
La scena immersa in una nebbia padana lascia trasparire un esercito di auto allineate e coperte da dei teli impolverati. Badate bene che, anche se può sembrarlo, non siamo di fronte ad un teatro naturalistico: non siamo capitati in un immenso garage. Da questo schema ben ordinato emergono una serie di attori/sacerdoti neri, vestiti di ieratiche tuniche bianche che si muovono secondo rituali codificati.
Dopo aver ammucchiato al centro del profondissimo palcoscenico molte di queste vetture, ne isolano una di fronte a noi, la ribaltano di lato e la continuano a far ruotare per mostrarcela come fosse un agnello sacrificale dalle cui “viscere” compare a tratti un busto classico, che poi diventa un teschio e infine una sacca di arance. Alla fine, l’auto viene completamente ribaltata e, col motore acceso, “canta” la sua incapacità di muoversi. Che è una perfetta metafora della nostra incapacità ad agire, a trovare una nuova vita, tutti noi troppo imbrigliati dai mille accessori inutili che possediamo e che ci fanno illusoriamente percepire una vita, la nostra, sommersa da mille apparentemente improrogabili obiettivi, a cui noi tutti, ostinatamente, le diamo una qualche parvenza di senso.
«Il tetto capovolto è la rivolta dell’arte decorativa contro l’arte libera». «Coloro che rotolano l’auto sono gli artigiani stanchi di lavorare senza godere dei frutti del loro lavoro»: bene ci ricorda il testo di Claudia Castellucci, che si ispira a quest’opera dei primi del novecento di Ernst Block. Un copione che viene recitato in francese e ci mette subito in guardia sul nostro concetto di libertà: «nessuno qui ci comanda ma non c’è libertà» E continua ricordandoci che «non sei tu a essere incapace di abbandonare questo posto. È il posto che non te lo permette». Esattamente la stessa incapacità a muoversi di questa automobile ribaltata, che sembra un carapace indifeso pronto ad essere schiacciato.
E come succedeva svariati anni fa durante la contestatissima tournée del suo magnifico Sul concetto di volto nel figlio di Dio, anche questa volta per tutto il tempo dello spettacolo attori e spettatori sono “osservati”: allora erano “osservati” dagli occhi del Cristo dipinto da Antonello da Messina, ora, in questo freddo inospitale capannone dismesso, il battaglione di auto impolverate ci osserva e ci costringe a riflettere sul nostro indispensabile bisogno di muoverci verso chissà che futile metà.
Ogni volta che affronti uno spettacolo della Societas Raffaello Sanzio devi essere preparato a qualsiasi cosa. Devi essere pronto ad abbandonare il concetto classico della messa in scena teatrale, quello che porta spesso a giudicare “carino” ciò che si è appena visto, semplice variante del repertorio che popola gran parte dei palcoscenici italiani. Con la compagnia di Cesena fondata da Romeo Castellucci, “carino” è abolito: il loro lavoro o piace o disturba. Sicuramente non lascia indifferenti. Non sempre c’è un vero e proprio testo, non sempre degli attori. A volte lo spettacolo è una semplice pulsazione di suoni e di colori, comunque prodotti in diretta, come mi capitò di vedere qualche anno fa a Torino al Teatro Carignano. Ricordo ancora oggi lo sguardo stupito di mio cugino, completamente digiuno di teatro, ma profondamente colpito da ciò che aveva visto. Perché Romeo Castellucci ama essere positivamente destabilizzante e anche qui, invitato a debuttare durante gli eventi cittadini di Arte Fiera, ha saputo ricordarci che «anche qui c’è arte, ma non c’è riproduzione, non c’è rappresentazione, non c’è insegnamento. C’è decorazione». C’è soltanto, e al massimo grado, decorazione e ornamento.
I suoi lavori in genere amano prendere il volo nuovamente verso i palcoscenici europei, dove la Societas è particolarmente apprezzata e ospitata con grande successo. Del resto, trovare più facilmente accoglienza all’estero che in Italia è purtroppo una costante del nostro teatro: vale per Emma Dante, Pippo Delbono, Spiro Scimone e Francesco Sframeli, Davide Enia, Motus, Babilonia Teatri e molti per altri gruppi d’indubbio valore.
La scena di questa apodittica comunità, miscelata con l’essenza della nostra apparente mobilità, qual è l’automobile, è appena meno inquietante di quella dei nostri figli stabilmente ormeggiati di fronte al computer e ai suoi social network. Minimo comun denominatore è la mancanza del prossimo, che ben ci raccontava lo psicanalista Luigi Zoja nel libro edito qualche anno fa da Einaudi, intitolato appunto La morte del prossimo. La cassiera al supermercato ormai legge solamente i codici a barre senza neppure guardarci negli occhi, immagazzinando piuttosto, per conto dei suoi committenti, le nostre abitudini accuratamente catalogate dalle nostre tessere fedeltà. Abbiamo il permesso di interagire con gli altri solo e soprattutto in quanto consumatori. Come ci ricordava la filosofa Laura Boella, attenta conoscitrice del pensiero di Ernst Block.
In questi scritti, da cui prende ispirazione Romeo Castellucci «Bisogna che d’ora innanzi l’arte si tenga lontana dall’uso e non ceda al basso richiamo del gusto, della stilizzazione edonistica della vita inferiore: deve dominare la grande tecnica, il “lusso” per tutti, il lusso democratico e ingegnoso che allevia la fatica e dà refrigerio, una ricostruzione della stella Terra che miri a eliminare la povertà, a trasferire la fatica sulle macchine, a rendere automatico e centralizzato l’inessenziale e perciò a rendere possibile l’ozio».
Con questo ultimo feroce tassello drammaturgico la Societas ci scuote dal torpore e ci mostra quanto sia vicino il senso della esistenza: nello sguardo di chi ci sta accanto e che non sappiamo più accogliere dentro di noi, troppo presi dall’ansia del produrre o dall’ultima stupida trasmissione televisiva, dall’ultimo twitter, o instagram, metadone perfetto per non pensare, per non vedere , per non aspirare ad una «vita nuova».