Leopoldo Carlesimo
Un'avventura in Tajikistan

Una storia a Roghùn

«Roghùn rappresenta una delle più ambite opportunità di lavoro per un giovane del Tajikistan. È l’opera più grande e longeva del Paese: quando sarà finita, sarà la diga più alta che mai gli uomini abbiano eretto in qualsivoglia angolo del pianeta»

Asliddin aveva ventun anni, ma dimostrava meno della sua età. Era alto di statura, magro, d’aspetto fragile e delicato. Portava i capelli folti un po’ troppo lunghi e pettinati senza criterio, quasi a casaccio, occhi scuri, colorito pallido, naso sottile e arcuato da una leggera gobba; zigomi alti, sopracciglia fini e lunghe tagliate quasi in orizzontale sotto la fronte alta, ma molto stretta: lineamenti più persiani che tartari. E in effetti, delle tre grandi linee di sangue che confluiscono nella sua razza – la persiana, la russa e la tartara – è quella meridionale, la persiana, a dominare; e la lingua, il tajiko, è una derivazione del farsi.

Il suo grado d’istruzione era discreto: con un po’ di fatica e ripetendo un paio di volte gli ultimi anni delle superiori, s’era preso un titolo di studio che in Italia corrisponderebbe grossomodo a un diploma di geometra, e grazie ad esso aveva trovato lavoro a Roghùn.

Roghùn – per chi non appartiene a una tribù potente, non è di famiglia ricca e non intende arruolarsi nell’esercito o nella polizia – rappresenta una delle più ambite opportunità di lavoro per un giovane del Tajikistan. È l’opera più grande e longeva del Paese: dura da più di trent’anni e ne durerà almeno altri venti, e quando sarà finita sarà la diga più alta che mai gli uomini abbiano eretto in qualsivoglia angolo del pianeta.

Quindi, per un ragazzo che s’avvia al lavoro, Roghùn è un bel trampolino. E questo senza neanche pensare a tutto il carico simbolico e onorifico che l’apparato patriottico ha accumulato via via attorno all’opera e che il governo non manca d’enfatizzare. Dimentichiamo per il momento il fatto che per un giovane tajiko rispondere alla chiamata di Roghùn è un po’ come rispondere a una chiamata d’armi e che c’è dell’onore, o quanto meno tale è rappresentato, nel prender parte all’impresa della nazione. Lasciamo perdere il lato ideale della faccenda e siamo pratici: provenendo da una famiglia povera di un villaggetto sulle montagne al confine con l’Afghanistan, Roghùn è l’occasione della vita, può essere la chiave per aprirsi al mondo, per uscire fuori dal guscio.

Un ottimo posto, dunque. Anche dal punto di vista economico. La paga era di gran lunga più alta della media del Paese. E per Asliddin, che fino ad allora era stato di parecchio sotto la media, erano un sacco di soldi.

Perciò il ritratto che abbiamo del giovane al momento del fatto è questo: un ragazzo di ventun anni, povero, appena sceso dalle montagne, scapolo e libero, che da poco tempo guadagna un bel po’ di soldi in uno degli avamposti più avanzati e qualificanti del paese.

Com’è possibile che un pesce del genere sia finito in quel tipo di rete?

* * *

Quanto a quegli altri tipi, è da un po’ che se ne incontrano qui. C’è sempre qualcuno di loro sul volo Istanbul-Dushanbe, una delle poche rotte decenti per arrivare quaggiù. In primavera, soprattutto, o in estate. Coi loro zaini in spalla, l’aspetto e l’abbigliamento più o meno trasandati. Scarpe da trekking, pantaloni pieni di tasche, maglie di lana pesante e giacche a vento da montanari. E qualcosa in comune nelle facce. Perlopiù europei occidentali o nordamericani. Membri di una comunità sempre più estesa. Ha avuto un boom, di recente, il trekking d’altura in Asia centrale. Qualcuno da queste parti la percepisce come un’invasione.            Ciò non spiega, naturalmente, quel che è accaduto. Nessuno se l’aspettava, era proprio impossibile prevederlo. Non era mai successo nulla del genere. Un concatenarsi di eventi talmente incomprensibile e assurdo. E isolato, per fortuna un episodio isolato.

* * *

Le leggi sul lavoro in vigore nel Paese sono di eredità sovietica, applicate con intransigenza anche a Roghùn, nonostante vi lavorino imprese internazionali che contro quelle leggi hanno a lungo protestato. Essendo considerata la diga un lavoro usurante ed essendo l’orario ininterrotto (si lavora ventiquattr’ore su ventiquattro sette giorni su sette, a Roghùn, festività civili e religiose comprese; unica eccezione: le cerimonie ufficiali, quando di tanto in tanto il Presidente fa visita al cantiere) gli operai lavorano dodici ore al giorno per quindici giorni di fila e poi si riposano. Un po’ come sulle piattaforme petrolifere. Sicché per coprire un posto, in produzione, bisogna assumere quattro persone: due per per i primi quindici giorni del mese, uno di giorno e uno di notte, e altri due per i secondi quindici.

Perciò Asliddin aveva anche un sacco di tempo libero a sua disposizione per godersi i soldi che guadagnava. E gli faceva piacere spenderseli in oggetti in voga, quelli che piacciono ai giovani di tutto il mondo. Aveva un telefonino ultimo modello. Portava scarpe Nike, jeans e felpe firmate. Vestiva all’occidetale. Si faceva vedere nei bar e nelle balere di paese agghindato all’ultima moda. Aveva una motocicletta, sia pur acquistata di seconda mano, e a quanto pare progettava di comprarsi un’auto. Non si può dire che facesse il bullo, questo no, perché era timido di carattere; ma ci provava, insomma, s’addestrava a quel tipo di vita.

Non sembra che avesse molti legami con la famiglia. E comunque, per quanto se ne sa, pare che la famiglia non fosse poi così religiosa. Pur vivendo in una regione a rischio, non è emerso che avesse contatti e neppure della simpatia per quelle frange che lì sono di casa.

* * *

Quando Asliddin non si presentò al lavoro, quel mattino a Roghùn, nessuno si preoccupò. Nessuno ci fece neppure caso. Le dodici persone che componevano la squadra – tutte quante, ovviamente, passate al setaccio dalla polizia – fornirono deposizioni concordi. Nulla di diverso da: “Io che ne so?” “Chi lo conosce, quello?” “Con lui non avevo nulla a che fare.”

Tutti i suoi compagni presero immediatamente le distanze da lui. L’unico che non riuscì a farlo fu Tariq, il caposquadra. Per quel fatto del cartellino. L’aveva portato presente, quando non lo era. Come spiegarlo? Una semplice negligenza? Un atto di favoritismo? Oppure era suo complice, intendeva costituirgli un alibi?

Ma potrebbe essere stato davvero solo un banale errore, una trascuratezza. Capirai, un cantiere di dodicimila operai. Settanta imprese diverse – società russe, ucraine, cinesi, iraniane, turche, coreane; più ovviamente noialtri italiani – tutti alle prese con questa diga. Una gran diga, la più alta al mondo. In una Babele così, ti vai ad accorgere se manca un operaio all’inizio del turno?

Asliddin era apprendista carpentiere. Lavorava ai casseri del quinto concio della transizione del tunnel di deviazione numero due. La transizione numero due (DT2, in gergo) è quel tratto di tunnel artificiale che va eretto entro il letto del fiume, nel punto in cui le gallerie passano da parte a parte l’alveo. Non è un fatto normale, che le gallerie traversino l’alveo. Teoricamente, è un controsenso. Ma molte cose nella diga di Roghùn sono contrarie al senso comune. Alcune sono giustificate dalla sua mole. L’impronta della diga in terra è così larga che… beh, costringe i tunnel a entrare e uscire dalla montagna due volte, e – tra l’una e l’altra – a traversare l’alveo.

Dunque, Asliddin doveva montare con la squadra del primo turno di carpentieri al lavoro sui casseri del quinto concio. I casseri erano quasi chiusi, il ferro d’armatura era montato. Il getto di calcestruzzo era previsto per il giorno dopo. Ma quel mattino Asliddin non si presentò al lavoro. Alle sette, quando i suoi compagni attaccarono, lui non era tra loro.

Per quanto riguarda i casseri del quinto concio, ciò non cambiò molto le cose. La squadra montò comunque gli ultimi pannelli e il giorno dopo il getto si svolse come previsto, malgrado l’assenza di Asliddin. Ciò vale per molte cose, in diga. Con Asliddin o senza Asliddin, i casseri si montano lo stesso. Col capoturno o senza capoturno, il getto si fa comunque. Col capocantiere o senza, la diga va su uguale. Con o senza il direttore, idem.

Questo per confermare che non è che l’assenza di Asliddin fu granché notata, in principio. Si comprese solo dopo la ragione pazzesca cui era dovuta. Quale fatto incredibile era piombato sull’organizzazione, pur senza alterarne minimamente i meccanismi. Tutto andò avanti come al solito, a Roghùn. Fino a quando si sparse la notizia.

* * *

“Me lo ricordo bene, quell’Asliddin,” disse Nico. “Ce l’avevo in squadra. Un ragazzo lungo lungo, magro, un po’ lento… ma insomma, né migliore né peggiore di tanti altri. Non un gran lavoratore, però non pareva un piantagrane. Chi mai andava a pensare…”

“Beh, le acque chete… Cosa credi, che uno che ci ha in mente quelle robe lì, si mette a far cagnara? Se ne sta muto, non si fa notare…” disse Mulon, il caposettore, un veneto di cinquant’anni che era il capo diretto di Nico. Nico era un giovane sulla trentina che veniva dal bergamasco e faceva l’assistente ai calcestruzzi.

Al club del campo, la sera in cui si seppe dell’accaduto, non si parlava d’altro. C’era il gruppetto dei giovani, che come sempre monopolizzava il biliardo. Un paio di quartetti di anziani impegnati ai tavoli da carte. Un gruppo misto sugli sgabelli davanti al banco, con le birre in fila, e un altro attorno al tavolino basso, sui divani. Dall’altra sala si sentiva la tivù, lì dentro c’erano quelli che preferivano non parlare dell’accaduto, non erano interessati alle vicende locali, per quanto drammatiche; se ne stavano per conto loro in attesa del notiziario dall’Italia.

Nico e Mulon sedevano al tavolo del tresette, assieme all’altra coppia che completava il solito quartetto: Italo e Buzzon. La partitella serale prima di cena. Quattro boccali di birra, un mazzo di carte bisunte e portaceneri pieni di cicche. Anche se alle pareti erano affissi cartelli che vietavano il fumo, nel club s’era sempre fumato e si sarebbe continuato a farlo.

“Eppure, non mi pareva che fosse uno di quelli,” insisteva Nico. “Se penso che ci ho lavorato fianco a fianco per dei mesi… Qualche sera l’ho anche incontrato a Obi Garm, in quella specie di balera che hanno aperto dietro al forno.”

“Magari ci andava a prendere i nomi, per fare la spia,” disse Italo, il più vecchio del tavolo, quasi settant’anni, cinquanta passati nelle officine di un paio di dozzine di cantieri. “State in campana, voialtri che frequentate quei posti. Una volta o l’altra ve lo fanno anche a voi, il servizio…” Scoppiò in una risata catarrosa, che gli soffocò in gola.

“Già, perché lui… Non ci bazzica mica, da quelle parti,” disse Buzzon, un carnico che montava nastri trasportatori. “Ma va là, che per tutta la vita sei stato uno dei migliori clienti…”

“Eh, una volta… acqua passata,” ribatté Italo.

“Di quale balera parlate,” interloquì la Mara. S’era avvicinata alle spalle di Nico, mentre gli altri avevano gli occhi sulle carte. Teneva anche lei un boccale in mano e l’immancabile sigaretta all’angolo della bocca.

“Ohè, Mara, non t’avevo mica visto,” disse Mulon. “Ma sì, che la conosci. La balera che c’è a Obi Garm, vicino al forno.”

“Ah, la chiamate balera, quella? Ha due piani di camere, sopra al bar… Quei posti lì a casa mia hanno un altro nome.”

“E tu che ne sai? Ci sei stata?” Disse Italo, e scoppiò in una risata, che come l’altra gli si strozzò in gola. Mentre tossiva, la Mara gli allungò sberla sulla spalla, che le fece versare un po’ di birra; poi però gli picchiò sulla schiena, per farlo smettere di tossire.

“Ma non sei ancora stanco? Dovresti piantarla, alla tua età… E’ tutta la vita che fai il maiale,” gli disse. “Ormai non ce la fa mica più, però insiste… è proprio l’ultima cosa che vuoi lasciare di te, eh?”

Italo le alzò il medio. La Mara avvicinò una sedia e si sedette tra Mulon e Buzzon.

La balera era frequentata da ragazze dei dintorni. Non ce n’erano molte, di distrazioni simili, a Roghùn. Terra di  musulmani, di montanari… mica allegra. Ma tutto il mondo è paese e anche lì come altrove nei villaggi attorno alla diga qualcuno aveva fatto due più due quattro, sposando bisogni e opportunità – domanda e offerta, insomma, le leggi di mercato – le autorità avevano chiuso un occhio e le ragazze s’erano attrezzate.

“Però, il fatto che si facesse vedere lì a Obi Garm… Vestito all’occidentale! Gli ho pure visto roba firmata addosso, i soldi della paga se li spendeva tutti così…” disse Nico.

“Parlate di Asliddin, eh?” Disse la Mara.

“Anch’io l’ho visto a Obi Garm. E beveva birra. Vi pare che beve birra, uno che la pensa a quel modo? Non serve mica, quello, a fare la spia…” disse Toni, uno dei più giovani del cantiere, un assistente movimento terra che s’era avvicinato tenendo per mano Bea, una ragazza sui vent’anni che lavorava in amministrazione. Da pochi giorni Bea e Toni stavano insieme.

“Bah, che t’ho da dire… Forse ci aveva le idee un po’ confuse. Del resto, aveva solo ventun anni…” disse Mulon.

* * *

Ventun anni. E non era nemmeno il più giovane del gruppo. Con lui ce n’erano due di diciannove. Erano in cinque in tutto, il loro capo si chiamava Hussein Abdusamadov, l’unico sopra i trenta, appena rientrato dalla Russia. Anche Asliddin era stato in Russia, prima di farsi assumere a Roghùn. Pare che avesse incontrato Hussein a Mosca.

Del resto, che fosse andato in Russia non prova nulla. Milioni di tajiki lo fanno tutti i mesi, su e giù con voli low-cost che somigliano molto a carri bestame. Buona parte della manodopera a basso costo che sgobba in Russia viene dal Tajikistan. Ma non si stabilisce mica, è pendolare, non le consentono di restare a lungo.

Comunque, che Asliddin quel mattino non fosse al lavoro doveva per forza saperlo almeno il caposquadra, quel Tariq. Avrà ben fatto l’appello della sua dozzina d’uomini, all’inizio del turno. E se anche non avesse fatto né l’appello né il briefing d’inizio turno – sì, insomma, quei dieci minuti di safety e daily planning e team-building… roba dura da far digerire ai tajiki – su dodici persone che aveva sotto, si sarà ben accorto che ne mancava una.

In contraddizione con questo, però, c’era quel fatto del cartellino. Per cui la polizia torchiò Tariq, perché aveva portato Asliddin presente mentre non lo era. Non ci andarono nient’affatto teneri, per tre giorni e tre notti lo tennero in caserma e quando ne uscì portava addosso i segni di quella maniera di far domande.

In qualche anfratto di quella gigantesca caserma che è Roghùn – perché l’intera diga è militarizzata; l’esercito è dappertutto, controlla ingressi e uscite, il cantiere è un’installazione miltare – in qualche sgabuzzino o sottoscala, Tariq fu doverosamente torturato da chi indagava sull’accaduto. A quanto pare ne uscì pulito, forse il fatto che avesse portato Asliddin presente fu davvero una semplice negligenza o un banale favoritismo a un compagno di lavoro.

Dopo la polizia, anche la direzione del cantiere avrebbe voluto interrogare Tariq. Il comico è che con quel che era successo, quelli del personale volevano chiarire la faccenda del cartellino. L’ufficio HR (Human Resources) aveva aperto una sua inchiesta, in proposito, c’era una procedura in corso. Non si marcano le ore a sbafo, è contro le regole dell’impresa.

Ma non fu possibile parlare con Tariq, neppure l’ufficio HR ne fu capace. Appena lo rilasciarono era talmente terrorizzato che scappò via senza farsi vedere da nessuno, senza neanche passare a riscuotere quel che gli spettava quanto a paga, indennità di licenziamento e robe varie. Non svuotò neppure l’alloggio, la misera stanzetta che occupava nella stecca dormitorio del quinto fabbricato nell’ala est della città operaia.

Sparì e basta. L’ufficio HR non ebbe modo di appurare perché Tariq aveva portato Asliddin presente quel fatidico giorno. Non poté chiudere la procedura. Si limitò a depennarli entrambi, Tariq e Asliddin, dal ruolino della forza.

* * *

Pare che il gruppo completo fosse composto di sette persone. Una coppia di americani, due olandesi, due svizzeri e un francese.

Pare si fossero conosciuti su internet. Tutt’e sette appassionati d’alta montagna, di ciclismo e trekking d’altura. Avevano fatto, ciascuno per suo conto, altre esperienze del genere in passato. Le prime, naturalmente, sulle montagne di casa. Le Rocky Mountains o le Alpi. Poi via via avevano allargato l’orizzonte: il Messico, le Ande; i Carpazi, il Caucaso.

La coppia americana aveva in mente un giro del mondo in bici. Erano a buon punto. Erano partiti mesi prima da Washington D.C., avevano alle spalle migliaia di chilometri a pedali. Due normali impiegati che a un certo punto avevano deciso di lasciare la loro tranquilla scrivania d’ufficio e andare in cerca di cose che da quella scrivania non potevano vedere. Dopo mesi di viaggio erano arrivati laggiù, ultima tappa dell’avventura.

Tutt’e sette raggiunsero comunque la loro meta. La traversata del Pamir lungo la Pamir Highway (la chiamano highway, ma è tutt’altro che un’autostrada; in certi tratti, sì e no una pista sterrata). Il Pamir, quell’altopiano tra i 4 e i 5 mila metri coronato da una cerchia di vette che superano i 7 mila. Lo chiamano il tetto del mondo. Se mai uomo bianco volesse ancora farsi re, quello sarebbe il non plus ultra della corona.

La ottennero, quindi. La loro meta. Il fatto avvenne sulla via del ritorno.

Curioso che sia successo a un gruppo che tornava in bicicletta dal Pamir. E che il Pamir, che ha attirato quei sette da così lontano, sia tanto legato alla diga di Roghùn. E che proprio da Roghùn sia venuto uno di quelli che… S’intessono certi legami, tra gli uomini, i luoghi e i fatti che vi si svolgono… E’ evidente che non tutti vengono in luce, alcuni restano segreti. Per chi studia fatti e luoghi – cronisti, investigatori di polizia – possono essere una miniera di congetture, aprono filiere di combinazioni possibili.

Il Pamir è tanto importante per Roghùn perché i suoi ghiacciai sono la principale fonte che alimenta il Vakhsh, il fiume sul quale sorgerà la diga. Il regime del fiume, il suo ciclico dilatarsi e contrarsi, segue – a fasi contrapposte – il ciclico innevamento dei ghiacciai. In primavera le nevi del Pamir si sciolgono, e le portate del fiume salgono fino alle piene rabbiose dei mesi estivi. In autunno lo scioglimento delle nevi rallenta fino a fermarsi, le portate del fiume calano e restano basse per l’intero inverno, mentre i nevai del Pamir ricaricano le loro riserve.

* * *

“Comunque, non era di queste parti. La famiglia non è di qui,” disse Nico.

“No. Non è qualcosa che è venuto dalla famiglia,” disse Mulon.

“No. E questo è peggio,” disse Buzzon. “Stava nella città operaia, no? Quello è un covo. Farebbero bene a dargli una ripulita.”

“Ma va’,” disse la Mara. “Non era mai successo. Che ripulita! Ce n’è già abbastanza, qui, di polizia!”

“Beh,” disse Buzzon. “Beh… Tu non ce li hai tutti i giorni attorno. Non vorrei ritrovarmi con una coltellata in corpo, una mattina, mentre lavoro lì agli impianti, senza sapere come.”

“Ma piantala! Non mettere in giro queste storie. Ci manca solo che seminiamo la jattura tra noi. E’ un fatto isolato. Li hanno presi. Gliel’hanno fatta pagare. Fine della storia. Hanno saldato il conto. E ce n’è già troppi, qui, di sbirri.”

“Bah,” disse Buzzon. “Bah… Io gliela darei, una bella ripulita.”

“L’hanno già fatto. La polizia l’ha passata al setaccio, la città operaia. Li hanno torchiati per bene, tutti gli amici di Asliddin,” disse Toni.

“Beh, pare che non ne avesse poi molti, di amici…” disse Nico.

“E hanno fatto bene,” disse Buzzon. “Ci va la mano pesante, con quei bastardi. Quella gente lì, bisogna tenerla con la testa schiacciata a terra, come i serpenti. Basta che molli la presa un attimo…”

“Falla finita,” disse la Mara. “T’inventi certe storie… Non esiste, qui, questo problema. Lo vuoi capire? Questo è sempre stato un posto tranquillo. E’ un fatto isolato. Resterà tale, a meno che qualcuno non faccia il menagramo…”

“Beh, vero è che il Presidente con quelli lì non è mai stato tenero,” disse Mulon. “Qui non ne ho mai sentite, prima, di queste storie.”

Quel che si sapeva, in cantiere, è che il Presidente aveva sempre usato il pugno duro, con gli islamici. Dopo il dominio russo, l’aveva vinta proprio contro il partito islamico, la sua guerra civile. Lui, post-comunista di stampo staliniano. Li aveva cacciati sulle montagne e poi, lì, li aveva fatti a pezzi. E aveva fondato un piccolo stato materialista e laico. Il suo stato. Pugno di ferro contro i radicali. E poco spazio anche per i religiosi moderati.

“L’avete sentito, nel discorso che ha fatto il giorno della deviazione del fiume, quante gliene ha dette, a quel muezzin che s’è azzardato ad aprir bocca durante la cerimonia…”

“Fa bene,” disse Buzzon. “Con la testa schiacciata nella polvere, li deve tenere.”

“E i vicini, tutti quelli che erano a contatto con lui, li hanno torchiati tutti. Fanno terra bruciata,” ripeté Nico.

“Fanno bene,” disse Buzzon. “Sradicarla prima che cresca, la mala pianta.”

“E smettila,” disse la Mara. “Non c’è nessuna pianta, qui, da sradicare. Seminare odio non riporta certo in vita quei poveracci. Se ci pensi, a quei quattro, che dannata sfortuna…”

* * *

S’incontrarono a Dushanbe. Di lì, con le loro bici, coi loro zaini e fagotti e giacche a vento da montanari e scarpe da trekking e tutto il resto dell’armamentario, imboccarono la via del Pamir. La coppia americana, quella del giro del mondo, i due olandesi, i due svizzeri e il francese. Pedalarono per un bel po’ di chilometri lungo un tratto della vecchia via della seta, risalendo l’altopiano. Una bella salita, impegnativa, con soste intermedie di acclimatamento e ristoro, in stazioni previste a questo scopo, dove è possibile pernottare, rifocillarsi; perché il tragitto è organizzato, è un itinerario pianificato, sotto controllo, non erano certo i soli a percorrerlo, ormai è quasi un classico, attrae migliaia di turisti occidentali ogni anno. Raggiunsero il Pamir. Vi descrissero un anello, lambendo le falde di quelle montagne da settemila. Di stazione in stazione, ai piedi delle vette, baciarono l’orlo della veste a tutte le punte della corona. Chiusero l’anello e iniziarono la discesa, tornando indietro, verso Dushanbe.

* * *

“Non avevano mica niente contro quei quattro,” disse  Bea. “Non li conoscevano nemmeno.”

“Certo, tesoro. E’ sempre così,” disse Toni. “Solo il fatto d’essere occidentali, non musulmani…”

“Beh, qui ci rientriamo in parecchi, nel profilo…” disse Nico.

“Ma va’,” intervenne la Mara. “Piantatela! Non era mai successo e non si ripeterà. Con la reazione che ha avuto il governo, ci potete scommettere…”

“Però il fatto che uno di loro fosse in mezzo a noi…” disse Nico. “Lavorarci gomito a gomito. Quante volte ci ho parlato…”

“L’avevo visto anch’io. A Obi Garm. Anch’io ci ho parlato,” disse Bea.

Gli occhi dei quattro giocatori di carte, al tavolo, e di Mara che le stava davanti, e di Toni che le teneva un braccio sulla spalla, si volsero verso di lei. Quella ragazza magrolina con le lentiggini e i capelli rossi. Le avresti dato sì e no diciott’anni.

“E quando?” disse Toni.

“Un mesetto fa, una delle prime sere che ero qui,” disse Bea. “Non ero a Roghùn da molto. Era sabato e a una cert’ora sono andata a farmi un giro a Obi Garm. Per conto mio.” Gli altri la guardavano. “Noi non stavamo ancora insieme,” aggiunse rivolta a Toni.

“Beh, non me ne hai mai parlato… Non mi dici nulla di un fatto del genere?” Disse lui.

“Ma se ti ho appena spiegato che era prima di metterci insieme… e poi te lo sto dicendo ora. Era sabato, mi annoiavo. Quaggiù non c’è molto da scegliere. Sicché verso mezzanotte mi son fatta prestare un pick-up e sono scesa fino a Obi Garm.”

“E chi te l’ha dato, il pick-up?” Chiese Toni.

“Ennio. Me l’ha dato Ennio… quello che c’era prima di te…” disse Bea, con un sorrisetto.

“Ti ha lasciata andare sola? Incosciente…” disse Toni.

“Era tardi, lui aveva sonno…” disse Bea.

“Hai un bel fegato, ragazzina,” disse Mulon.

“Da sola? Il primo sabato che eri quaggiù?” Disse la Mara. “Sei un tipo svelto, tu!”

“Già, certo… Beh, non lo volete sentire, il resto delle storia?” Disse lei. S’era accaparrata l’attenzione. E si vedeva che ci godeva, ad averci gli occhi di tutti puntati addosso.

“Sei andata a Obi Garm… e allora?” Disse Toni.

“Il bar era quasi vuoto. Di noi c’era solo Luca, dell’underground… il minatore. Stava a un tavolo con due ragazze, m’ha visto… Chiedete a lui, se non mi credete.”

“E non t’ha detto niente, vedendoti là, sola?” Fece Toni.

“Mi pareva piuttosto impegnato…” disse Bea. “Ma ci siamo scambiati un’occhiata e ci siamo capiti. Ognuno per i fatti suoi… Non so se poi è salito in camera, con quelle… A un certo punto non l’ho visto più…”

“Stronzo!” Disse Toni. “Invece di prenderti e riportarti indietro…”

“La vuoi piantare? Te l’ho detto, ci siamo visti, eravamo d’accordo…” Il suo tono di voce s’indurì. “E poi non ho bisogno di balie, sarà bene che te lo ficchi in testa…”

“OK, va’ avanti con la storia, ragazzina,” disse Mulon.

“Non so se sopra ce n’erano altri, dei nostri, dentro le camere. Ad ogni modo, giù al bar c’erano solo un po’ di tajiki, forse anche dei russi, dei cinesi… al banco e ai tavoli. Ci vanno un po’ tutti, a Obi Garm, no? Nessun altro dei nostri, però. Parecchi mi guardavano, certo… Non gli capita spesso di vedere un’italiana lì da sola… Beh, c’era anche il vostro Asliddin, con un gruppetto di amici. Tutti tajiki, credo… Ed è proprio lui che è venuto a sedersi accanto a me, al banco. M’ero scelta uno sgabello un po’ in disparte, stavo per ordinare… M’ha offerto da bere, ho accettato… Due birre. E anche lui beveva, ha ragione Nico… Uno così, non dovrebbe neanche toccarlo l’alcol, no? Beh, poi abbiamo ballato.”

“Avete ballato…” Disse Toni.

“Sì. Parlava solo qualche parola d’inglese… non c’era tanto da conversare, sicché ci siamo spiegati un po’ a gesti e poi lui m’ha invitata a ballare. E ho ballato. Con quel ragazzo magro magro, alto, coi brufoli… pareva anche più giovane di me. Un tipo timido.” Fece una pausa. “Mentre ballavo, ho lanciato un’occhiata dalla parte di quel Luca… Era ancora lì, con le sue amiche. M’è parso che levasse il calice dalla mia parte, non so, poi non l’ho più guardato… Ma quell’Asliddin, mica sapeva ballare… Per tutto il tempo ha mantenuto la distanza, come non volesse starmi troppo addosso. E incespicava, non teneva il passo, anche se la musica era di un lento… Ha tenuto le mani immobili sulla mia schiena, non ci ha mica provato, macché… Era carino, ma goffo, con le ragazze non ci sapeva fare… Abbiamo ballato un paio di lenti, poi siamo tornati al banco, a finire le birre. E’ allora che ho guardato un’altra volta dalla parte di Luca, e non l’ho visto più. Sarà salito, credo… Adesso ero davvero sola. Siamo rimasti lì un altro po’, Alsiddin e io, m’ha offerto una sigaretta, ma quanto a parlare, non c’era verso… Non c’era molto altro da fare, lì, o tornare a ballare, o bere ancora, o andarsene… Non so se gli altri, nel locale, continuassero a fissarmi, non ci facevo più caso… Ma penso che, visto che s’era avvicinato Asliddin… in qualche modo ero occupata, mi proteggeva lui. Abbiamo finito le birre. Poi gli ho fatto capire che dovevo andare, che avevo la macchina. Lui m’ha accompagnata fuori.”

“T’ha accompagnata fuori… Soli, tu e lui…” disse Toni.

“Sì, fuori. Per strada, mica su in camera… Credevo che volesse almeno provarci, prendersi la soddisfazione di baciarla, l’italiana… Me l’aspettavo, insomma, e stavo pronta… Ma niente. M’ha accompagnata al pick-up, m’ha aperto la portiera… E m’ha chiesto una cosa… Non ci crederete, voi, a quello che m’ha chiesto.”

* * *

Quel che le chiese, Asliddin a Bea, fu la guida dell’auto. Accompagnarla a casa, al campo di Roghùn, portando lui il pick-up.

Glielo chiese in modo così goffo. Certo, lei non capiva nessuna lingua che lui potesse parlare. Sì insomma, né il russo, né il tajiko, e quell’inglese incespicante… S’arrangiò molto più a gesti che a parole, mimando un volante inesistente ed indicando l’auto, mentre stavano lì in piedi, lui e Bea, nel parcheggio fuori dalla balera, al buio, in quel freddo cane che fa a Obi Garm in certe notti di primavera, quando cala il gelo e quel po’ di neve avanzata, per terra, ghiaccia di nuovo. Avevano le suole troppo leggere, a contatto con quel sottile strato che intirizziva i piedi, saliva su un freddo… s’erano messi tutt’e due scarpette da balera, inadatte al gelo della notte tajika, quando la temperatura crolla, ultimo sussulto dell’inverno, quella tardiva crosta di ghiaccio così fragile, così traditrice, su cui si fatica a stare in piedi, si rischia di scivolare ad ogni passo… E successe proprio questo, successe che la domanda parve così strana e così imprevista che quando Bea la capì, quando capì ciò che lui le stava chiedendo, dopo che per minuti interi l’aveva guardato mimare qualcosa che ora comprese essere un volante e indicare il pick-up e non capiva quel che voleva dire e lo fissava in modo così intenso e incuriosito con gli occhi stretti che le formavano delle piccole rughe alla radice del naso, cercando di cogliere ciò che lui intendeva, e muoveva su e giù la testa, sì, il mio pick-up, ma annuiva senza capire, e quando poi finalmente lo fece, quando capì, quasi perse l’equilibrio per la sorpresa, perché le venne da ridere, e fece un movimento brusco e rischiò di cadere su quel ghiaccio infido. Fu allora che lui la tenne, la prese per un braccio e s’appoggiò alla portiera e la sostenne, impedendole di scivolare sull’asfalto gelato, e nel far questo l’attrasse a sé: aveva braccia magre, ma forti, dure come stecchi, che si chiusero attorno alla vita di lei, e aveva il volto vicinissimo al suo, quando le ripetè, le rispiegò, in quella lingua gesticolante fatta solo di sguardi, adesso, perché aveva le mani impegnate, e di smorfie e di corpo, il volante, diceva, la tua macchina, il tuo pick-up. Quel linguaggio di corpi, dei loro corpi a contatto l’uno con l’altro, stretti da quella ruvida cintura attorno ai fianchi, gli stecchi nodosi delle sue braccia, e tutto il resto del corpo steso su di lei, addossato a lei, l’una contro l’altro, le ripeté – abbracciandola perché non cadesse – che voleva accompagnarla a Obi Garm guidando lui il pick-up, che lo lasciasse fare, avrebbe preso lui il volante. E Bea vagamente intuì, o credette d’intuire, quel che lui cercava di dirle in quel linguaggio così primitivo, così animale, quella bugia che si stava inventando, guidare, diceva lui, gli piaceva guidare, gli piaceva moltissimo, stava per farsela anche lui, una macchina, questo stava dicendo in quel momento, in un sussulto d’inglese appena comprensibile, my car, le spiegò, era in trattative, se ne sarebbe presto comprata una, di car, quella stupida balla, voleva solo guidare il suo pick-up, che bugia scema, lo lasciasse fare, l’avrebbe riaccompagnata sana e salva fino a Roghùn. E Bea, lei, capì. Capì che lui voleva davvero proprio quello, portare la macchina, guidare il pick-up fin dentro al campo di Roghùn, venti chilometri di curve, per quella strada buia che corre sul crinale, col suo asfalto gelato, tutto buche, ma capì anche, o sospettò, che non volesse soltanto quello, e fece segno di sì, con la testa e con gli occh e con tutto il corpo, e lui allora la sostenne mentre compivano assieme il giro, fianco a fianco, attorno al muso dell’auto, su quella crosta di ghiaccio, tutto il periplo del veicolo torno torno al cofano, e la tenne abbracciata per l’intero tragitto e quando furono dall’altra parte le tenne aperta la portiera mentre lei saliva e la fece accomodare sul sedile del passeggero e poi richiuse con delicatezza, chiuse con garbo, attento a non urtarla, né lei né l’auto, non maltrattarle, nessuna delle due, e poi rifece il giro, dalla parte del conducente e salì a bordo e prese le chiavi che Bea gli porgeva e le infilò nel cruscotto e accese il motore. E mentre viaggiavano ad andatura lenta su quella strada gelata e malsicura riprese a nevicare. Una neve primaverile, lieve, fatta di fiocchi fini, però sempre più fitti, che scendevano lentamente, senza vento, quella leggera e mobile e discontinua cortina che s’accendeva e vibrava, oltre il parabrezza, per via dei fari che ci sbattevano contro, sui fiocchi, e li accendevano, parevano lucciole, parevano volar loro incontro per poi dissolversi oltre il fascio di luce, nel buio, nella fitta coltre di tenebra stesa oltre quel luccichìo. E Asliddin teneva lo sguardo fisso sul parabrezza e sulla strada e cercava di penetrare al di là, di perforare quella cortina, ma lei, Bea, gli occhi li teneva fissi su Asliddin, su quel viso così lungo e magro e lontano, così straniero, e anche lei cercava di penetrare oltre una cortina e le parve di intuirvi qualcosa che forse era imprudente esplorare fino in fondo.

Arrivarono a Roghùn, davanti al cancello del campo. Le guardie di sorveglianza uscirono sotto la neve, a controllare, e Bea mostrò il badge e loro forse presero Asliddin per l’autista e aprirono il cancello e fecero passare l’auto. Bea indicò la strada, lungo i vialetti, tra i prefabbricati del campo, e Asliddin guidò, fino a fermarsi davanti all’alloggio di Bea.

* * *

“Ci sei andata a letto?” Disse Toni.

Lo disse lì, davanti a tutti. Non se la tenne dentro, per dopo, quando avrebbe avuto Bea tutta per sé, a quattr’occhi. Fu quel che fece, dal momento che lei aveva raccontato quella storia davanti agli altri, gli parve naturale trattarla così…

“Ti giuro di no. E’ finita lì, fuori dal mio alloggio.”

“E come è tornato indietro, Asliddin?”

“Non lo so,” disse Bea. “Io sono entrata. Lui non ha fatto neanche il gesto di scendere. E’ rimasto in macchina. Non mi sono voltata. Ho richiuso la porta. Nevicava. La mattina dopo, il pick-up era là, dove lo avevamo parcheggiato. Le chiavi erano sul cruscotto.”

 * * *

Quando l’auto li incrociò, di ritorno dal Pamir, uno di quei cicloturisti era rimasto indietro. Il francese. Una bella fortuna. Aveva perso contatto col resto del gruppo su una salitella poco prima di quel minuscolo villaggio, quattro case diroccate. Quel po’ di fiato che gli mancò, probabilmente gli salvò la pelle. E quando incrociarono l’auto che usciva da una via laterale, del gruppo ne erano rimasti solo sei.

Una piccola via laterale, poco a valle di quel villaggio minuscolo chiamato Safobakhsh, nel distretto di Danghara. Fu lì che avvenne il fatto. L’auto, una Daewoo Sedan, non fu l’unica arma.

Pare ci fosse proprio Asliddin alla guida. Non era certo il membro più importante del gruppo. Ma neanche il più giovane. Il membro più anziano, il capo, era quel tale Abdusamadov, che Asliddin aveva incontrato in Russia.

L’auto li superò, poi fece conversione e tornò lentamente indietro. Sterzò bruscamente, invadendo l’altra corsia. Puntò i ciclisti e accelerò.

Dopo l’impatto, gli occupanti della Sedan scesero. Li finirono con i coltelli.

Non è chiaro se Asliddin sgozzò materialmente qualcuna delle vittime.

Non è chiaro come mai due dei ciclisti – uno svizzero e un olandese – furono solo gravemente feriti, ma non uccisi, e riuscirono a salvarsi. I morti furono solo quattro.

* * *

“Cioè, praticamente sei una di quelle che gli hanno fatto scuola guida…” disse Italo. Era una battuta, ma nessuno rise. Nemmeno lui. Non soffocò, stavolta; qualcos’altro, non la risata, gli si strozzò in gola.

“Ti rendi conto, Bea? Ti rendi conto del rischio che hai corso? Sei anche tu una sopravvissuta, come quel francese…” Disse la Mara.

Il silenzio che seguì, fu Mulon a romperlo.

“E comunque, ha fatto una brutta fine, il tuo Asliddin,” disse.

“Sì. Una brutta fine. L’hai saputo, no?” Rincarò Nico, rivolto a Bea.

Toni taceva. Gli s’era formata un’espressione sul muso… Così fissa e così tetra. Anche Mara taceva, ora. Guardava Bea. Avresti detto che c’era del rimprovero in quello sguardo. E anche della sorpresa, come cominciasse solo allora a capirla… Bea, lei, non ci fece caso. Taceva, come gli altri. Aspettava che Mulon concludesse. Che lo dicesse, visto che ci teneva tanto, si levasse la voglia…

E Mulon concluse:

“Già. Li hanno beccati subito, tutt’e cinque. Neanche ventiquattr’ore dopo il fatto. Non tutti insieme, però. S’erano divisi. Per far perdere meglio le tracce. Due li hanno presi mentre cercavano di passare in Afghanistan. Altri due, tra cui Asliddin, in un villaggetto su a nord, dalle parti di Karakendzha. Secchi tutt’e quattro. Nella versione ufficiale, sono stati uccisi mentre tentavano la fuga. Ognuno di loro aveva un colpo solo, però, in testa.”

Era tutto. No, non ancora. C’era un’appendice.

“Il quinto l’hanno catturato vivo. Il capo, quell’Abdusamadov. Era a Dushanbe, cercava un modo per tornare in Russia. Lui lo vogliono interrogare, prima. Pare che l’attacco sia stato rivendicato. Hanno diffuso un comunicato su internet, con le foto di tutt’e cinque, incluso Asliddin. Combattenti del Califfato, questo dice la CNN. In America la considerano una rivendicazione credibile. Ma il governo, qui, la pensa diversamente. Sostiene sia stato il partito islamico locale. Per più di una ragione, a loro conviene raccontarla così.”

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