Cartolina dell'America
Ma Trump lo sa?
L'assassinio di Qasem Suleimani è destinato a cambiare tutto negli equilibri - già precari - tra Est e Ovest del mondo. L'impressione, o il timore, è che il presidente Usa abbia premuto il grilletto solo per il suo (personale) interesse
“The game has changed” ha annunciato giovedì scorso il Segretario della Difesa americano Mark Esper, riferendosi alla situazione in Iraq dopo l’attacco all’ambasciata degli Stati Uniti da parte della milizia Kataib Hezbollah a sua volta colpita da raid americani al confine tra Iraq e Siria. In questa spirale di ritorsioni che sembra destinata ad una pericolosa escalation, “ci sono indicazioni – ha affermato Esper – che quelli della milizia potrebbero colpire ancora con attacchi mirati. Se ne avessimo notizia prima che avvengano, agiremo preventivamente per proteggere le forze americane e proteggere le vite degli americani. Il gioco è cambiato” – ha concluso. Ma è davvero cosi?
Perché a parte il fatto che Esper ha mantenuto la sua parola e ha compiuto, su ordine diretto di Donald Trump, un’azione preventiva azzardata e di enorme pericolo internazionale, uccidendo il numero due del regime iraniano, il generale Qasem Suleimani comandante della Forza Quds, (l’unità delle Guardie rivoluzionarie, responsabile per la diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica Islamica), “il gioco” non sembra cambiato affatto. E visto che nei giochi c’è sempre qualcuno che vince e qualcuno che perde, viene fatto di notare che l’America, in questo contesto, continua a perdere, ormai da più di una generazione.
Se, infatti, si guarda al passato con lo spirito dell’angelo benjaminiano che si gira indietro procedendo in avanti, e ci si ferma al 1979, l’anno della cosiddetta dottrina Carter, si può vedere che sin da allora si parla da parte americana dell’uso o della minaccia dell’uso di forze militari per imporre un ordine nel Golfo Persico e nei paesi circostanti. Idealmente quell’ordine includerebbe valori venerati dagli americani come quello della democrazia e del rispetto dei diritti umani. Vale la pena di ricordare che questi valori, ammesso che siano universalmente venerati, però non vengono mai senza un prezzo. E cosi in teoria ci sarebbe dovuto essere un accordo sul petrolio per permettere alle nazioni che su di esso basavano la loro sopravvivenza e le loro economie, di fruirne. Specie se erano alleate degli Stati Uniti. In realtà, ciò ha comportato compromessi di tutti i tipi che hanno determinato frizioni e guerre guerreggiate, di posizione e non, tra i vari stati del golfo. Tuttavia, dall’11 settembre, gli sforzi americani di imporre un qualsiasi ordine in quella regione del mondo hanno distrutto quel poco che esisteva prima. Oggi in quell’area vige una totale anarchia: guerre civili, stati che falliscono, rinchiusi in un cieco tribalismo che ignora i diritti civili e non ha mai implementato nessuna forma di democrazia funzionante, organizzazioni terroristiche che non esistevano in passato, ma solo da quando la global war on terrorism americana è cominciata, circa due decenni fa. L’Iraq stesso che oggi ospita milizie pro-iraniane ed è il bersaglio di attacchi aerei americani, incarna il fallimento di circa 17 anni di un’ipotetica istaurazione di un qualsivoglia ordine.
Trump da candidato prima e da presidente poi ha sempre denunciato quel progetto come folle, giurando che avrebbe liberato gli Stati Uniti dal caos che essi stessi avevano creato. Eppure, come spesso accade nella storia di questa presidenza, il gap tra le sue affermazioni e le sue azioni è enorme. Con l’uccisione di Suleimani, Trump getta la spugna. Mostra la corda. È un presidente in grande difficoltà. Le guerre che aveva promesso di eliminare continueranno. I nemici dell’America aumenteranno. Le guerre in Medioriente e in tutta l’Africa si trascineranno anche per il fatto che esiste una bancarotta totale nell’establishment della politica estera americana la quale rimane troppo sposata a un’idea altamente militarizzata della leadership globale degli Stati Uniti. E forse questo è proprio il momento di eliminare i falchi dalla politica di Washington, perché portatori di una visione unilaterale e semplificata dei problemi internazionali che invece richiedono decisioni complesse e articolate. Pena l’isolamento degli Stati Uniti nel panorama internazionale.
Questo è un anno di elezioni e ci sono due considerazioni importanti da fare in merito. In una democrazia che si rispetti il voto è preceduto dal consenso pubblico alla soluzione dei problemi del giorno. E un presidente che ha subìto un procedimento di impeachment ha ormai una macchia indelebile sulla sua presidenza, anche se non verrà rimosso dalla sua carica, in quanto, come si sa, al Senato dove i repubblicani hanno la maggioranza, non voteranno mai quella procedura contro il loro presidente. Il peggioramento della crisi tra Stati Uniti e Iran è tuttavia uno dei casi nei quali Trump ha bisogno del consenso popolare. E se c’è un motivo per poter giustificare un’azione estrema contro uno stato canaglia, è il ragionamento di Trump, si deve agire con determinazione. E lo si deve fare mostrando l’indecisione e i tentennamenti dei democratici che denunciano il cattivo uso del potere militare americano in Medioriente e la normalizzazione della guerra.
La seconda riguarda la politica interna e la possibilità che in una situazione di emergenza come quella che si potrebbe creare tra Stati Uniti e Iran, la continuità nella guida del paese sia essenziale. Come accadde a George W. Bush dopo l’11 settembre. In questo caso però sarebbe lo stesso presidente ad avere creato un problema dalla cui soluzione potrebbe derivare il su vantaggio elettorale. Sta adesso ai democratici dimostrare l’avventatezza e la pericolosità della politica estera del presidente.