Sergio Zoppi su “Questioni meridionali”
Progettare il Sud
Si presenta domani a Roma il volume dedicato alla rivista che indagando sui problemi del Mezzogiorno d’Italia li indicava come vera e propria questione nazionale. Dopo quasi novant’anni, un’emergenza che si ripropone con uguale drammaticità
In occasione del 70° anniversario della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) si presenta domani a Roma, alle 16,30 presso la Biblioteca dell’Associazione (via di Porta Pinciana 6), il libro di Sergio Zoppi “Questioni meridionali – Napoli 1934-1943”. Oltre all’autore, intervengono Adriano Giannola (Presidente della Svimez che ha firmato l’introduzione al volume), Piero Barucci, Guido Pescosolido. Nella recensione che pubblichiamo, Marco Emanuele spiega l’importanza e l’utilità attuale dello studio di Sergio Zoppi.
Sergio Zoppi, con il rigore dello storico e con la serietà dell’intellettuale, in Questioni meridionali. Napoli (1934-1943) (il Mulino, 2019) ci porta dentro l’esperienza di una testata dalla vita breve ma tormentata e intensa. Così scrive l’Autore (p. 17): «Un piccolo gruppo di personalità appartenenti al mondo delle imprese industriali, all’insegnamento universitario e alla ricerca scientifica applicata decide, nei primi anni Trenta del secolo scorso, di partire proprio da Napoli per mostrare ai connazionali il vero volto del Mezzogiorno negli anni in cui il Fascismo ottiene la (quasi) generale, e spesso entusiastica, adesione degli italiani: quello della crescita demografica ma anche dell’analfabetismo, dell’indigenza, del sovraffollamento abitativo, dell’arretratezza nei trasporti, del ruolo secondario affidato al turismo, del dissesto delle finanze comunali – con la conseguente latitanza di quei servizi che rendono le persone prima cittadini e poi comunità – e altro ancora».
Nel quadro dell’Italia fascista si pone – attraverso quella piccola voce ma molto competente – il bisogno di classi dirigenti (non solo in politica), di capacità visionarie e progettuali per rendere il Mezzogiorno d’Italia una vera e propria questione nazionale. Passati quasi novant’anni da allora, passato il secolo e il millennio, cambiato radicalmente il mondo, la questione meridionale si ripropone in tutta la sua drammaticità. È una questione tenace, dura a morire, o forse manca il talento politico, amministrativo e organizzativo, che chiamiamo “volontà competente”, di affrontarlo e di risolverlo?
Scrivendo di Gino Olivetti, il “terzo direttore” di Questioni meridionali, Zoppi declina un programma culturale e politico. Nota l’Autore (p. 20): «Egli (Olivetti, NdA) è il politico, lo studioso, l’industriale esperto di organizzazione che invoca l’intervento dello Stato nell’economia, in primo luogo attraverso una politica di lavori pubblici che proceda di pari passo con la tutela del risparmio, la valorizzazione dell’agricoltura, l’impegno concreto nel diffondere l’istruzione, garantendo la giustizia, la sicurezza civile, reprimendo la delinquenza, affermando la salute pubblica, avendo di mira la rieducazione morale e politica». Insomma, si tratta di un vero e proprio progetto di sviluppo integrato, capace di tenere insieme le diverse dimensioni del vivere civile; uno sviluppo complesso, che compone gli interventi particolari in una visione d’insieme, in un “mosaico progettuale”.
Il testo è arricchito da un saggio iniziale di Adriano Giannola dal titolo “Questioni meridionali” dalla preistoria alla storia del neomeridionalismo, che individua nella rivista nata nel 1934 «una poco nota e poco analizzata preistoria della Svimez» (p. 9). Scrive Giannola (p. 8) che «è (…) molto significativo il fatto che, mentre si celebra la fine della Questione (a opera del regime fascista, NdA), proprio nel 1934 nasca a Napoli, presso l’unione degli industriali, il progetto delle Questioni». Nota ancora Giannola (p. 8) che «ci ricorda Zoppi, citando il contributo di Ciasca sulla Treccani, che forse quel titolo, Questioni, è una larvata provocazione, una polemica considerazione sul fatto che il regime aveva voluto segnare una discontinuità rispetto alla ricca tradizione del cosiddetto meridionalismo classico».
Zoppi, nel testo, passa in rassegna gli anni in cui visse la rivista. Egli opera un vero e proprio “giudizio storico” descrivendo i contesti, i protagonisti della rivista, gli attori, le tensioni, lo spirito del tempo. Sono pagine dense, quelle dell’Autore, indirizzate a un pubblico sia tecnico che, semplicemente, curioso e interessato. Conclude Zoppi (pp. 188 e 189): «Si tronca così un progetto editoriale originale e di qualità che a Napoli era cresciuto intorno a una ragguardevole presenza industriale e a un’università che tanto negli studi umanistici quanto in quelli tecnici e scientifici aveva ripetutamente dato alta prova di sé. Di questa realtà Cenzato e Giordani erano tra i rappresentanti di punta. Nel volgere di pochi anni i volumi di Questioni meridionali, attraverso alcune migliaia di pagine, avevano saputo indagare la consistenza sociale ed economica del Mezzogiorno, sempre a partire dalla sua città simbolo, mostrandola senza reticenze. Quei due direttori, con Olivetti finché gli era stato consentito, agivano nella consapevolezza che non è possibile migliorare la realtà se prima non la si osserva, la si scruta, la si comprende; lungo un percorso, per quanto consentito dai tempi e dalle circostanze, che partendo dal momento attuale rappresentato poneva a fondamento la scienza, la tecnica, l’organizzazione, l’impegno a realizzare così da riuscire a conseguire la dignità del vivere e del lavoro in specie e quindi la fiducia in un domani operoso, creativo, amico. La guerra dissennata impedì a quel progetto di produrre i risultati che si potevano attendere».
Pur se il mondo si è “globalizzato”, questo studio-testimonianza di Sergio Zoppi è estremamente importante e utile nell’ottica della costruzione di un interesse territoriale (a partire dalle città) che, in particolare nel tempo presente, è un tutt’uno con l’interesse nazionale e con le sfide globali. Oggi, che viviamo una crisi profonda dell’Occidente e dei suoi valori, che il Mediterraneo torna a essere “mare di conquista” per interessi di diverse potenze (nella crisi evidente della leadership europea), il Mezzogiorno emerge come un luogo strategico e decisivo; un luogo nel quale si possono immaginare modelli efficaci ed efficienti di sviluppo sostenibile, con l’utilizzo delle nuove tecnologie e attraverso la riproposizione di adeguate politiche pubbliche, in un mercato del lavoro che chiede ripensamenti strutturali e non politiche dal sapore assistenziale che mostrano la loro fragilità in termini di sguardo lungo. Il bisogno di industrializzazione torna, ancora oggi, prepotente. Così come, va detto con chiarezza e gli intellettuali dovrebbero ritornare a pensarlo, si pone con estrema attualità il rapporto tra uno sviluppo armonico e giusto e la qualità e la tenuta dei sistemi democratici. Centrale è l’alta formazione transdisciplinare, di università come luoghi dell’unità del sapere nell’unità della realtà.
Pur se i decenni trascorsi dal tempo di Questioni Meridionali hanno portato anche miglioramenti, spiace rilevare che i nodi decisivi del Mezzogiorno siano sempre lì, pressoché eterni e irrisolti, spia accesa a segnalare il motore bloccato di una macchina potenzialmente potentissima.
Una nota finale. Il libro è scritto nel ricordo, oltre che di Giuseppe Cenzato, di Giulio Pastore. Lo segnalo perché, pur non avendolo conosciuto, ne ho vissuto indirettamente gli insegnamenti attraverso le parole di Vincenzo Scotti e Sergio Zoppi con i quali da anni collaboro e che mi onorano della loro amicizia.
(Marco Emanuele è professore incaricato di Istituzioni negli Stati e fra gli Stati, Link Campus University)