Cronache infedeli
Ricordo di un maestro
Addio a Italo Moretti, giornalista curioso e appassionato sempre fedele al dominio della notizia. Una lunga carriera spesa tutta all'interno del servizio pubblico, fino a diventare direttore (e volto familiare) del Tg3
Caro Italo Moretti, nella vita di un uomo ci sono cose – piccolissime cose – che pochi condividono. Quando, in Africa, l’aereo su cui viaggiavi si schiantò sulla pista e si spezzò in due tronconi: il tuo sedile stava nel troncone fortunato, e te la cavasti con qualche graffio e un incubo notturno ricorrente. Quando a casa tua, la tua bella casa del quartiere Prati, mi invitasti per un caffè, solo per scoprire che non avevi una cucina come tutti noi umani. “Pranziamo al bar, qualche volta al ristorante”, mi spiegò tua moglie con un sorriso di scusa.
Maestro? che brutta parola. Eri il compagno più grande, in quella caotica, spensierata nave corsara del Tg3 delle origini, nella palazzina rossa di via Teulada. Quando in Salvador mi arrestarono e mi trasferirono in una caserma dell’esercito, ti mettesti paura perché conoscevi bene quando possono essere sbrigativi i militari in quelle disperse latitudini. Passato l’allarme, nella nostra prima telefonata dalla redazione del Tg3 alla mia camera d’albergo, quasi mi rimproverasti: “Flavio, ma che cazzo! Ho viaggiato da quelle parti per più di venti anni, e non mi hanno mai arrestato. Ora arrivi tu, e alla prima occasione, ti mettono al gabbio…”. Scherzava, o forse un po’ gli dispiaceva questa mia involontaria irruzione nei luoghi che erano la sua storia: brusco, come sapeva essere, indifeso, come era nella quotidianità del lavoro.
Quando a sorpresa uscì il suo nome come direttore del Tg3, continuo a pensare che fu quasi un dispetto. Tra gli squali avvezzi al potere, direttori di lunga lena scampati a tutte le bufere politiche, Italo Moretti era un pesce fuor d’acqua. In redazione – inutile dirlo – le primedonne non lo amavano e in tanti animarono una sorda resistenza quotidiana. Non fu un periodo felice, ma considerate ora, da quella lontananza che separa le cose che davvero valgono dalle misere vanità personali, quelle scaramucce giornalistiche suonano a vuoto come i tamburi di una guerra tra topi e batraci.
Ha ancora senso, in questa epoca di pulviscolo informativo e di ignoranza spacciata per onnivora competenza, parlare di grandi giornalisti? Se ha senso, Italo era davvero un grande giornalista, come Demetrio Volcic o Giangiacomo Foa, come Mimmo Candito, o – prima di loro – Aggeo Savioli. Il giornalista vero è uomo di grandi passioni e di grandi curiosità. Italo fu anche uomo di grandi dolori: una figlia amatissima perduta, e perduta anche Ilaria, la più giovane del nostro Tg3. Di questi lutti, caro Italo, non abbiamo mai parlato. Una sorta di giusto pudore li teneva lontani dal discorrere quotidiano. Abbiamo invece parlato molto di America Latina, la tua grande passione che imparai a condividere. Delle persone, delle tragedie, delle ingiustizie, dell’irriducibilità della speranza. Parlando di questo, parlavamo di noi, con una sincerità più autentica di qualunque confessione privata. Della nostra amicizia lunga trenta anni, questo ci resta, e non è poco.