Visto al Teatro Eliseo di Roma
Il carillon di Molière
Arturo Cirillo ripropone "La scuola delle mogli" di Molière facendone un gioco ripetitivo e perverso: quasi un'ossessione manieristica, nella quale la borghesia seicentesca si trasforma in un mondo popolato di fantasmi
La scuola delle mogli è una commedia di Molière andata in scena per la prima volta nel 1662, un impeccabile gioiello che il Settecento ci ha tramandato, e che giunge fino a noi sui nostri palcoscenici grazie alla sensibilità e alla accuratezza di Arturo Cirillo che lo ha ridotto e messo in scena per conto di Marche Teatro, Teatro dell’Elfo e il Teatro Stabile di Napoli, nella splendida traduzione di Cesare Garboli. Lo spettacolo, in scena al Teatro Eliseo di Roma fino al 19 gennaio, ci fa riscoprire la modernità e la peculiarità del capolavoro molieriano, scritto dal commediografo francese quando aveva già quarant’anni e si era congiunto in matrimonio con la figlia della sua prima attrice/amante, e dunque lievemente autobiografico.
Arnolfo, vecchio pedante oramai al declino fisico e morale, col desiderio di sposarsi intende coronare degnamente la propria esistenza, di conseguenza portare a termine un matrimonio propizio e senza infedeltà: seleziona così ed alleva fin da piccola l’ignava Agnese, convinto che la sua ingenuità e candore possano soddisfare degnamente le sue esigenze. La ragazza raggiunta oramai l’età giusta per congiungersi col suo benefattore, grazie proprio alla sua semplicità, s’innamorerà spontaneamente del giovane Orazio, guarda caso proprio figlio di un amico di Arnolfo. Ma la grandezza, la causticità di Molière è tale da imbrogliare le carte, e sovrapporre gli intricati fili della tessitura: avviene difatti che Orazio confessa all’amico del padre la sua passione per la giovane Agnese, non essendo a conoscenza del desiderio di quest’ultimo di sposarla. Alla fine l’amore, ma solo alla fine, quello vero, trionferà sulla scena come nella vita. Ma il tragitto della commedia fino a noi contemporanei non è stato semplicissimo, a cominciare da quel debutto al Palais Royal, le provocazioni insite nella commedia irritarono non poco la corte e la compagnia avversaria dell’Hotel du Bourgogne, gli argomenti trattati sono una feroce critica alla società dell’epoca, esposti in un’alternanza sapientemente rimescolata che si gioca tutta in tragicità/comicità, e che visibilmente Cirillo mostra come gli “affari umani” non siano affatto cambiati nonostante l’inesorabile trascorrere del tempo.
Arturo Cirillo ricostruisce intorno alla delicata trama una struttura di sentimenti decadenti, intuisce la possibilità di far ruotare tutta questa depravazione umana attorno a un carillon che si attorciglia mistericamente su se stesso, una mini casa di Barbie incantata, un giocattolo perverso a uso e consumo degli adulti, ove è segregata la bella e furba Agnese, una casetta dei balocchi avviluppata, pressoché come e quanto i sentimenti contorti che attraversano i personaggi, quasi da farla rassomigliare ad una casa dei fantasmi di un vecchio luna park in disuso, intuizione scenografica assolutamente fantasiosa di Dario Gessati. Un ballo dei ladri, per dirla alla Anouilh, ove ognuno dei personaggi defrauda dell’innocenza se stesso e chi gli sta accanto: una ferina, sordida lotta alla sopravvivenza, un sottile gioco teatrale non fine a se stesso, ma un’attenta analisi della complessa architettura umana che regge i rapporti fra i simili dell’animale uomo.
E in questo congegno le singole interpretazioni sono l’espressione di un lavoro registico esemplare, tali da citarli singolarmente tutti. Valentina Picello una delicata quanto innervata Agnese, che graffia e morde come un felino quando deve, ma dottamente occultata sotto la scorza di una pecorella smarrita, una delle più brave e promettenti prime attrici del panorama nazionale. Giacomo Vigentini, che con ecclettica agilità disegna un Orazio originale, accattivante, insolito, inusuale mentre Rosario Giglio e Marta Pizzigallo sono i due scaltri servi, ben assortiti nella loro dirompente fisicità. Ma su tutti svetta la prova rara e ingegnosa di Arturo Cirillo, che tratteggia un Arnolfo o doppiamente travestito Signor del Ramo, ancora aitante, agile, attraente mentre la sua protervia, la sua bramosia è tutta espressa in una interiorità perversa e senza scrupoli.