Periscopio (globale)
Gli occhi di Galdós
Pérez Galdós, padre del verismo spagnolo tra '800 e '900, è un autore da rileggere per apprezzare la sua capacità di "guardare" il mondo. Proprio per questo divenne l'idolo di Luis Buñuel che trasse un grande film dal suo "Tristana"
Abbiamo chiuso il 2019 parlando del massimo scrittore realista tedesco, Theodor Fontane, e apriamo il 2020 con il massimo scrittore realista spagnolo, Benito Pérez Galdós, di cui si celebra in questi giorni il centenario della morte, avvenuta a Madrid il 4 gennaio 1920. Molte le differenze tra i due, naturalmente, ma molte, al netto dell’aspetto puramente cronologico – l’ultima fase, quella più importante, di Fontane, coincide con la fase centrale della sterminata produzione di Galdós –, anche le somiglianze: capacità di andare dritto all’essenziale, estrema naturalezza dei dialoghi, forte presenza di elementi ironici e umoristici, empatia per i personaggi, particolare abilità nel tratteggiare le figure femminili.
Se, come ricordato nel microsaggio precedente, Berlino svolge un ruolo importante nei romanzi di Fontane, Pérez Galdós, benché nato (nel 1843) a Las Palmas, è uno scrittore eminentemente madrileno. Al di là della sua capacità impressionante nella caratterizzazione dei personaggi, dobbiamo infatti sottolineare anzitutto come la vera protagonista di tutti i suoi libri sia la Capitale, di cui esplora ogni angolo e ogni ceto sociale. Nei primi anni investiga Madrid da un punto d’osservazione privilegiato, quello dei pensionati dove vive da studente povero almeno fino al 1867, quando l’università lo espellerà per aver accumulato troppe assenze ingiustificate. Sarà quello, però, un anno importante, perché l’improvvisa libertà dagli studi gli consentirà di accompagnare il fratello a Parigi e di visitare l’Expo; qui, acquisterà da un bouquiniste sulla Senna una copia di Eugénie Grandet e sarà vittima di una prima, incurabile infatuazione per il realismo balzacchiano. Realismo che ne caratterizzerà poi l’opera letteraria, inaugurata a dire il vero già sei anni prima, ad appena diciott’anni, con un racconto ispirato al Chisciotte e intitolato Un viaje redondo, por el bachiller Sansón Carrasco. Nel 1870 pubblicherà un saggio di teoria della letteratura nonché, grazie al sostegno economico della cognata, il primo romanzo, La fontana de oro; in seguito, sarà autore, coscienzioso e regolarissimo, di più di un titolo all’anno, tutte opere che rientrano nei ben quattro cicli dei vasti, pittoreschi affreschi degli “Episodios nacionales”. Scrittore seriale ante litteram, Pérez Galdós non si limita tuttavia a questo, ma affianca agli “Episodios” non solo una messe sterminata di articoli, ma anche romanzi di diversa ispirazione, come Doña Perfecta e Gloria (1876), Marianela e La familia de León Roch (1878), La desheredada (1881), El amigo Manso (1882), El doctor Centeno (1883), Fortunata y Jacinta (1887), che è forse il suo capolavoro, Miau (1888), La incógnita e La realidad (1889), Ángel Guerra (1891), fino a Misericordia (1897), l’ultimo grande sforzo creativo, mentre Rosalía, rimasto incompiuto, sarà ritrovato, ricostruito e pubblicato solo nel 1983. Alla sua morte Galdós lascerà comunque qualcosa come 46 “Episodios nacionales”, 31 altri romanzi estranei al ciclo e 22 testi teatrali.
Scriverà Unamuno, con icastica precisione, che “l’opera narrativa di Galdós dipinge un’epoca e un’umanità profondamente antieroica”. Timidissimo e trascurato nel vestire, anche per meglio confondersi fra la gente, parco di parole ma acuto osservatore, dotato di una memoria, soprattutto visiva, di ferro, Galdós è profondamente calato nella storia contemporanea, di cui diventa un testimone ineludibile a partire dalla rivolta avvenuta la notte di San Daniele, il 10 aprile del 1865, che vede affrontarsi studenti e professori universitari da una parte e cavalleria dall’altra, e da cui rimarrà fortemente impressionato. Come si sarà capito, nel suo caso non si può davvero (più) parlare di costumbrismo, l’illustrazione bozzettistica di tipi diversi di popolani e popolane, benché fosse amico del massimo esponente di questa corrente, Mesonero Romanos, e ne seguisse la produzione letteraria con simpatia. Del costumbrismo è anzi il superatore e in certo senso il liquidatore, diventando semmai sempre di più, con il passare degli anni e l’accumularsi dei romanzi, il cronista del progressivo degrado morale della piccola borghesia, sebbene membro egli stesso della borghesia liberale, in un momento storico piuttosto convulso che porta già quest’ultima a perdere d’importanza. Sono gli anni della restaurazione di un potere assoluto, quello borbonico, sostenuto da un ceto borghese ricco e rapace, di affaristi e speculatori, anni che culmineranno nel fallimento di ogni speranza liberale e nella promulgazione di una costituzione repressiva, benedetta da una Chiesa cattolica completamente asservita al potere e ad esso funzionale. (Fra parentesi va forse notato qui che sarà proprio l’evidente ed esibito anticlericalismo di Galdós a impedirgli, negli anni Dieci, di ottenere il premio Nobel, al quale viene candidato in ben tre occasioni e che nel 1922 andrà invece, a mo’ di compensazione politico-geografica, al drammaturgo Jacinto Benavente.) Quel che interessa a Galdós, in chiave compiutamente realista, è indicare il funzionamento della società a lui contemporanea, mostrare le conseguenze dell’industrializzazione e dello sfruttamento terriero, testimoniare quanto la città cambi con l’illuminazione a gas, gli acquedotti e le fognature e come questo cambiamento investa poi tutto il paese, grazie per esempio alle prime linee ferroviarie e ai primi spostamenti di massa. L’osservazione della realtà e l’interpretazione storica si fondono in una geografia urbana caratterizzata dalla compresenza delle classi sociali più varie, con i loro tic linguistici e i loro idioletti, il loro modo di vestire, esprimersi, gesticolare che Galdós rende con notevole ironia e chirurgica precisione, erede in questo tanto di Cervantes quanto di tutta la tradizione del romanzo picaresco, a cominciare dall’amatissimo Quevedo. Ma è il linguaggio, appunto, il vero punto di forza della scrittura galdosiana: come ha osservato uno dei suoi massimi specialisti, Ricardo Gullón, in un saggio del 1987 che è ancora il principale riferimento per gli studiosi, nei romanzi e nel teatro di Galdós la lingua si sprigiona in modo spontaneo, dando l’impressione di essere un fenomeno naturale. Del resto, Pío Baroja attribuiva al solo Galdós, fra tutti gli scrittori spagnoli, la capacità di far parlare come si deve, in modo cioè realistico, la “gente del pueblo”.
Paradossalmente, Pérez Galdós è oggi ricordato soprattutto per essere stato l’autore che ha ispirato uno dei film più complessi, duri e tormentati di Luis Buñuel, Tristana, benché nell’economia complessiva dell’opera galdosiana questo non sia che un romanzo tutto sommato minore, certo non sprovvisto d’interesse, ma sicuramente meno elaborato dei grandi affreschi narrativi di cui abbiamo parlato. Il romanzo di Galdós – come le altre sue storie che Buñuel aveva già tradotto in immagini: Nazarín, filmata nel 1958, e Viridiana, del 1961 – era diventato per il regista una vera e propria ossessione, tanto che il film avrebbe dovuto girarsi già nel 1962, quando i censori della Spagna franchista gli rifiutarono un copione dal titolo Secuestro e lui propose allora ai produttori di trarre una sceneggiatura da Tristana. Anche questo copione fu però respinto dalla censura, pare a causa della scena del duello, e Buñuel ripiegò sul Diario di una cameriera, uscito nel 1964. Fu solo alla fine del 1968, quando decise di tornare a vivere e lavorare in Spagna, che le condizioni per portare a termine il progetto maturarono, grazie anche all’interessamento di investitori francesi e italiani. Non mancarono tuttavia altri attriti con l’inflessibile censura, e amici suoi e dei produttori dovettero fare la spola fra Buñuel e il ministro franchista dell’Informazione, all’epoca il relativamente illuminato Manuel Fraga, per smussare gli angoli e trovare una soluzione.
Ottenuto alla fine il via libera, Buñuel lavorò al film con enorme impegno, concedendosi l’inserimento di qualche elemento autobiografico e di non poche autocitazioni (in particolare se si pensa a Viridiana) nonché diverse libertà nei confronti del testo originale di Galdós: nella sceneggiatura, ad esempio, Tristana non sposa don Lope per consentirgli di ereditare, e al personaggio del figlio sordomuto della domestica viene data un’importanza che nel romanzo non ha. Nell’insieme, tuttavia, l’atmosfera galdosiana è rispettata e Buñuel fa propria la simbologia dello scrittore realista interpretandola alla luce della propria sensibilità e cultura.
Spostata l’ambientazione a Toledo, nei luoghi della sua infanzia, tra gli anni Venti e gli anni Trenta del secolo scorso, Buñuel mette in scena la storia dell’orfana Tristana (una delle più convincenti interpretazioni di Catherine Deneuve), accolta e insidiata da un vecchio tutore, don Lope (a sua volta magistralmente interpretato da uno degli autori-feticcio buñueliani, Fernando Rey). Don Lope è un personaggio pieno di contraddizioni, un hidalgo tradizionalista che vorrebbe però allo stesso tempo vestire i panni di un libertino moderno, un borghese che si crede nobile, un antiautoritario mangiapreti che nei confronti di Tristana cerca però di esercitare la più odiosa delle autorità, quella maschilista e possessiva del marito-padrone. Scriverà François Truffaut che, a personaggi come quello di don Lope, Buñuel si divertiva a prestare le concezioni più stupide, controbilanciate da idee più profonde e logiche, i suoi propri pensieri, e che proprio questa paradossale contaminazione gli consentiva di allontanarsi da sterili psicologismi e raggiungere e inscenare invece la vita vera.
Prigioniera in casa, Tristana trova una via di fuga quando incontra un giovane artista di belle speranze (Franco Nero), ma, colpita da una terribile malattia che la costringerà all’amputazione di una gamba, sarà costretta a tornare sui propri passi e a chiedere a don Lope di essere riaccolta in casa. Il matrimonio con don Lope, che segue l’ottenimento della sospirata eredità, e la vita coniugale infelice che ne deriva sono a quel punto inevitabili, così come il risentimento e l’odio che si accumulano nell’animo della ragazza, portandola a provocare o almeno a non ostacolare la morte di don Lope, non appena il fato, sempre atroce, irragionevole e imprevedibile, che l’ha così duramente colpita con la perdita della gamba, deciderà di rivolgere i suoi strali anche contro il suo ex tutore. La libertà si ottiene e si paga diventando, da innocenti e vulnerabili, cattivi, da vittime carnefici, sembra dirci Tristana con il suo sorriso perfido, mentre, con don Lope in piena crisi cardiaca, finge di chiamare il medico e apre infine la finestra al gelido soffio d’aria che si porterà via definitivamente la vita del suo nemico.
Del resto, come ben sapeva Rilke – e Catherine Deneuve/Tristana non fa eccezione –, “ein jeder Engel ist schrecklich” (“ogni angelo è tremendo”).