A proposito de “Il mio Enea”
Enea e Caproni
Curati da Filomena Giannotti, Garzanti ripubblica tutti gli scritti di Giorgio Caproni dedicati al mito di Enea. Nella contiguità con l'esule solitario (anche se padre e figlio contemporaneamente), il grande poeta trova le ragioni di una sua passione costante
Nell’estate del 1948 Giorgio Caproni a Genova incontrò Enea. Fu un incontro decisivo per la sua attività di poeta, l’emozione che ne derivò avrebbe accompagnato lo scrittore per il resto della vita. Ce lo racconta lo stesso Caproni in una serie di articoli, scritti in epoche diverse e in particolare negli anni del dopoguerra, ora riuniti nel pregevole volume Il mio Enea, edito da Garzanti a trenta anni dalla morte del poeta, avvenuta il 22 gennaio del 1990. La raccolta di scritti è curata, con attenzione di filologa e con la cura amorevole di chi vive a contatto con la poesia, da Filomena Giannotti, che dà conto in un suo bel testo introduttivo del rapporto tra Caproni ed Enea, di come la prossimità del poeta livornese all’eroe virgiliano si sia sviluppata e sia diventata più consapevole nel corso degli anni. La prefazione al volume è di Alessandro Fo, la postfazione di Maurizio Bettini.
Scrive Giorgio Caproni in un articolo pubblicato su La Fiera Letteraria il 3 luglio 1949, con il titolo estremamente significativo di “Noi, Enea”: «Fu l’estate scorsa ch’io, trovandomi a Genova per una visita, m’incontrai per la prima volta (e si capisce mentre meno me l’aspettavo) con Enea figlio d’Anchise. Me lo vidi di soprassalto davanti in piazza Bandiera». Benché si tratti di una statua di Enea di epoca barocca, e di fattura piuttosto modesta, insomma «un Enea di marmo, cioè quel monumentino a Enea che tutti i genovesi sanno», fu grande l’emozione del poeta, «non minore di quanta ne avrei provata – spiega – incontrando Enea in carne ed ossa».
Nei vari scritti dedicati all’eroe troiano (quello ospitato sulla Fiera non è il primo e non sarà l’ultimo), che trovano poi una maturazione poetica nel poemetto Il passaggio d’Enea, pubblicato in volume dall’editore Vallecchi nel 1956, Caproni ricostruisce gli spostamenti della statua, prima manifestando stupore per la sua presenza a Genova e poi in qualche modo fornendo una spiegazione del rapporto della città con l’eroe «scampato per miracolo dalla distruzione di Troia, e venuto a capitare, col suo duplice prezioso fardello, proprio sotto le bombe e i calcinacci d’una delle più bombardate e tartassate piazze d’Italia».
È questo insomma che commuove Caproni, è questo che sommamente gli interessa, come la Giannotti bene chiarisce nel suo testo d’accompagnamento: il carattere umano dell’eroe, reso esplicito proprio dall’inanimata presenza della statua, dal contesto in cui essa si trova ad essere collocata, «una statua cariata» scrive ancora Caproni «così dimessa, così umana, così vera». E in questo inumano che diventa umano, nell’emozione di fronte a qualcosa che c’è e che non c’è, nella sorpresa al cospetto di una apparizione che pure si manifesta in assoluta concretezza, è già presente tanto della poesia dell’autore de Il franco cacciatore e di tanti altri libri che rimangono centrali nella letteratura europea del secolo scorso.
È chiaro dunque che l’Enea che incontra, che scuote e impietosisce Caproni, quel «figlio e nel contempo padre», che «sofferse tutte le croci e le delizie che una tale duplice condizione comporta», l’Enea insomma «meno eroe che uomo, e per di più uomo posto al centro di un’azione suprema (la guerra) proprio nel momento della sua maggior solitudine», non è l’eroe su cui aveva insistito la retorica fascista, non è nemmeno l’uomo del destino, l’iniziatore della gens Iulia, ma è un personaggio tragico, un uomo che non ha più patria, che ha perso la moglie, uno sconfitto che non può più essere del tutto figlio e che per il proprio figlio deve ricostruire interamente il futuro. Nella rilettura caproniana, Enea è un esule perenne, insomma «sono io, siamo noi».
Ancora in quell’articolo del 1949 (ma anche in alcune delle tante “variazioni” che esso ha avuto) si dice che mai Enea fu tanto solo come nel momento raccontato da quella statua: «E se nessun poeta (nemmeno il suo poeta Virgilio) se n’è accorto, è qui che converge tutto il fuoco della sua vera grandezza d’uomo, simbolo vivo e ancora incompreso di tutta l’umanità».
In fondo per Caproni è questo il valore dell’incontro avvenuto nell’estate del 1948: nel corpo e nel gesto d’Enea, nella sua condizione di lontananza e isolamento, è presente tutta quanta l’umanità, tutta quella che usciva martoriata dal secondo conflitto mondiale certo, ma più in generale Enea sembra rappresentare nel suo stato di “esule perenne” lo stato di salute di tutto quanto il genere umano nell’epoca della modernità.
La ricostruzione operata dalla Giannotti, che nel volume garzantiano recupera tutti gli scritti di Caproni sull’eroe troiano, anche le minime citazioni, ci permette tra l’altro di avere contezza, se ancora ce ne fosse bisogno, dello straordinario fluire musicale della prosa caproniana, e ancora di più di rendere espliciti i versi, peraltro non sempre semplicissimi, del Passaggio d’Enea.
Per comprendere la qualità della prosa di Caproni basta approdare al testo Genova, dell’ottobre del 1979, giustamente raccolto in questo volume. È l’ultimo degli articoli in cui il poeta livornese parla di Enea (come ci dice la Giannotti nel preziosissimo ed estremamente accurato apparato di note), ed è soprattutto uno scritto in cui chiarisce il suo rapporto con la città d’adozione tanto amata. Il testo comincia così: «Il punto di stazione da cui io guardo Genova non è quello, scelto ad arte, del turista. È un punto di stazione che si trova dentro di me. Perché Genova io l’ho tutta dentro. Anzi, Genova sono io. Sono io che sono “fatto” di Genova».
C’è solo da aggiungere «Genova di lamenti. / Enea. Bombardamenti. / Genova disperata, / invano da me implorata», come è scritto nella celeberrima Litania.