Una storia inedita
Un pranzo di Natale
«Appena Franco seppe, un tremore nervoso gli prese le mani, i lati della bocca. La scoperta di una verità così velenosa, che fu capace di rovinargli il resto della vita sua. Un miserabile! Il padre questo era e se lo ripeteva sempre»
Indossava sempre il vestito buono, quello blu scuro con la camicia stirata addosso, togliendo le ultime pieguzze col getto d’aria calda del phon, quando ogni venerdì sera, Franco, andava a cenare al ristorante sotto i porticati di Via Toledo. Era la Vigilia e sulla strada l’andirivieni formicolante della gente copriva le luci dei faretti a neon sulle larghe vetrine dei negozi. Camminava piano col mento liscio e sporgente verso l’alto, gli occhi a fessura e le sopracciglia che, corrucciandosi, prendevano la forma di una S strettissima. Pensava allo spaghetto a vongole veraci che a breve avrebbe gustato bevendo una bottiglia di vino bianco, Fiano d’Avellino che era il più buono. Ma il vociare della gente intorno lo irritava; era come il brusire degli insetti che di notte si nascondevano a casa sua dietro ai termosifoni. Ogni tanto, quando non riusciva a prendere sonno, sbatacchiava il lenzuolo per poi concentrarsi con lo sguardo sul pavimento e subito tornare con gli occhi al soffitto dopo essersi assicurato che non fosse scivolata giù nessuna di quelle bestiole nere che erano capaci di infilarsi dappertutto, pure nel letto. Poi si strofinava la testa, la sentiva solleticare, buttando all’indietro il ciuffo castano che, pure da steso, gli cadeva sull’occhio destro.
Come usava fare prima di entrare nel solito ristorante, si fermò davanti all’attività di vendita cravatte – se la ricordava da piccolo, la bottega delle grandi firme preferita dal padre – facendosi spazio tra la folla nervosa per le ultime, veloci compere di Natale.
Studiava la sua immagine sulla vetrina: il corpo asciutto e muscoloso si intravedeva dalla camicia insieme al riflesso dei capelli puliti che odoravano di vaniglia. Si accarezzò la fronte umida come faceva la giovane donna che abitava al piano terra del suo palazzo che di certo doveva amarlo tanto per sopportare il suo carattere schivo.
– Franco, tesoro, ma perché non mi porti mai sopra da te? Mi hai raccontato che è così bella casa tua… da nobili! Con l’affaccio su tutta Napoli! – glielo domandava sempre Carmela, la ragazzetta. E lui diceva, sbuffando e alzando gli occhi, che di certo non poteva farsi vedere con una così tanto giovane come lei e soprattutto ancora minorenne. Era sconveniente e anche illegale. Meglio raggiungerla di notte a casa, con attenzione, senza che nessuno potesse scoprirlo. Aveva una reputazione da mantenere.
– Lo sai amore, sono il figlio di un uomo d’affari importante. Non posso… non ci restare male – poi lei poggiava la testa sul suo petto mentre se ne stavano distesi sul divano con il plaid che copriva le loro gambe avvinghiate. Appena Carmela si addormentava, Franco sgattaiolava fuori e ritornava a casa sua, nell’attico che puzzava di muffa e sigaro, con le bollette ammucchiate in un angolino del grande salone insieme alle boccette di Xanax e antidepressivi. Proprio lì sulla pila di vecchie edizioni del codice civile appartenute al padre, uno degli avvocati più conosciuti di Napoli. Alla sua morte poi gli aveva lasciato parecchi soldi che gli avrebbero permesso di campare di rendita per almeno altri vent’anni. Ma ogni giorno si stendeva sul letto con gli occhi fermi sul soffitto e pensava. Detestava il padre. Per quella volta che gli confessò il peccato più grosso, prima di morire, mentre Franco se ne stava seduto ai piedi della brandina d’ospedale. L’immagine fissa di un vecchio macilento che indossava il camice leggero, sotto si intravedevano le nudità del sesso raggrinzito e della pelle rugosa della pancia intorno all’ombelico. Le ginocchia scoperte, le gambe sottili con le vene gonfie che parevano pulsare. Appena Franco seppe, un tremore nervoso gli prese le mani, i lati della bocca. La scoperta di una verità così velenosa, che fu capace di rovinargli il resto della vita sua. Un miserabile! Il padre questo era e se lo ripeteva sempre. Per tutto quel tempo Franco aveva creduto di essere il bambino nato dalla passione, dal più tenero amore. Invece, era il figlio dello stupro finito in un matrimonio riparatore. Solo menzogne di una famiglia nobile e sincera agli occhi della gente. Il padre, con un filo di voce, ansimando quasi, raccontava confuso i macabri dettagli del fatto, soffiando fuori le parole e la poca aria che gli rimaneva in corpo. Qualche ora dopo morì. Franco non si presentò al funerale. Aveva incaricato l’organizzazione del rito religioso al proprietario delle pompe funebri e al parroco della chiesa vicino casa. Fece sapere a tutti che era troppo doloroso per lui partecipare al rito e all’inumazione del corpo. Andò al cimitero solo il giorno dopo e inginocchiandosi sul terriccio fresco davanti alla tomba, sputò sui garofani rossi che di sbieco nel vaso coprivano metà del nome scolpito sulla lapide.
Attraversò i portici ed entrò nel ristorante. La proprietaria alla cassa lo salutò diventando rossa in viso e sul petto grosso. Franco si sedette al solito tavolo. Si mostrò infastidito perché il cameriere tardava ad arrivare. Dovette aspettare una buona mezz’ora. Con voce sostenuta, quasi indifferente verso chi aveva davanti ma allo stesso tempo fascinosa per chi lo ascoltava, lo appuntò alla proprietaria subito dopo aver pagato il conto gettando i soldi sul bancone. Lei, imbarazzata, si scusò più volte promettendo che non sarebbe mai più accaduto – sapeva che il Dott. Franco era uno dei suoi migliori clienti come lo era stato il padre dopotutto – e che la prossima volta gli avrebbe offerto una bottiglia di Fiano d’Avellino, la sua preferita.
* * *
Quando bussò alla porta di Carmela lei indossava una camicia da notte merlettata con fiori neri e così corta che si distingueva la peluria sulla pelle lattea dell’inguine.
– Sei venuto… – fece la ragazza.
– Domani è Natale, andiamo a mangiare al ristorante? – si buttò sul divano, aveva bevuto troppo.
– Lo sai che non posso. Ho mamma e papà a casa. C’è pure mia sorella e i miei nipotini. Ho preparato già tutto il pranzo… Però ci possiamo vedere a Santo Stefano. Che dici?
– Va bene. Meglio così, tanto volevo restare da solo. – rispose Franco che piano chiuse gli occhi, addormentandosi. Carmela si accucciò accanto a lui. Gli sussurrò che l’amava mentre con delicatezza gli massaggiava i piedi freddi.
Si svegliò che era notte. Carmela dormiva ancora e senza far rumore Franco si avviò verso l’uscita, intanto si aggiustava i capelli allisciandoli all’indietro. Appena salì a casa appoggiò con cura il vestito e la cravatta per l’indomani sulla poltrona a dondolo. Infilò le boccette di antidepressivo nella tasca interna della giacca e di nuovo tornava a guardare il soffitto. Quella notte sognò la madre che gli baciava la fronte.
* * *
Il tavolo era già apparecchiato per il pranzo di Natale. Sul bisso rosso scuro, il secchiello col Fiano d’Avellino tenuto al fresco insieme a un finto ramoscello di bacche. Appena seduto, la proprietaria lo raggiunse.
– Abbiamo preparato un pranzo tutto speciale solo per voi, Dott. Franco. – diceva entusiasta, muovendo le braccia larghe – Siete il nostro cliente preferito, lo sapete. Fate parte della famiglia. Mia mamma me lo diceva sempre “mi raccomando al figlio dell’avvocato! Trattatelo sempre bene quando non ci sarò più, come ho fatto io con suo padre che era un gran signore!” -. Avendo come risposta solo un sorriso accennato, quella si congedò abbassando lo sguardo, poi si avviò rapida verso la cucina.
Il cameriere intanto versò il vino nel calice alto di cristallo. Franco lo bevve tutto d’un fiato. Riempì altri due bicchieri. In pochi minuti era già a oltre mezza bottiglia.
S’alzò di scatto facendo graffiare la sedia sul pavimento tanto che i clienti si voltarono verso di lui, pareva fuggire mentre raggiungeva il bagno. Agganciò il chiudiporta e si sedette sulla tavoletta abbassata del water. Cacciò fuori le due bottigliette di antidepressivo dalla tasca e traendo un grosso respiro le ingollò una dopo l’altra. Appena appoggiò la testa alle mattonelle scivolose sul muro sentì come tante brevi scosse elettriche all’altezza della nuca e delle spalle. Mamma, Carmela ti amo ripeteva sbiascicando a bassa voce. Non te ne andare. Baciami la fronte, come fai sempre così mi sento vivo, oramai mimando le parole a mezza bocca. Gli occhi pesanti e adesso la sua mente era lì davanti alla sacrestia. La sera non c’è nessuno dentro, era buio, il padre raccontava, e la mamma e il padre, giovane come in quella fotografia sul tavolo, le sta addosso. Erano solo ragazzi un gioco era solo un gioco perché lui le voleva bene. Ma poi il sangue sul pavimento bianco e in mezzo alle cosce piccole e sulla faccia di lui le mani che gli coprivano la fronte e lei premeva ma era un gioco solo un gioco e grida tanto non sente nessuno e poi Carmela quanto è bella Carmela così pura non le avrebbe mai fatto del male forse un giorno l’avrebbe sposata e finalmente quel bambino nato solo per amore ma lui era il figlio dello stupro della colpa che avrebbe guastato la vita sua vergine e se lo ricorda adesso che vedeva la madre di nascosto assorta assente ma non capiva e lei se ne accorgeva e sorrideva e lo prendeva in braccio e giocavano tutti i pomeriggi i baci sulla fronte era felice ma bussano forte e stride il chiudiporta di metallo e poi niente il silenzio del padre per tutta la vita l’infame che lo prendeva per mano ogni venerdì al negozio di cravatte al ristorante sotto i porticati e lo amava lo detestava doveva morire sul letto della clinica non la madre con la tosse dei bronchi suoi rotti ma lui doveva morire per mano sua un cuscino una crisi respiratoria e poi niente silenzio e scusa Carmela devi salvarti e sali a casa e leggi ti ho lasciato tutto pure il cuore mio e le sirene il vociare dei clienti nel ristorante e il chiudiporta di metallo che si rompe i passi veloci e poi il silenzio e niente più.