Un racconto di amore e dolore
Punto e virgola
«Lo chiamavano Gabibbo perché non indossava altro colore che il rosso. Al suo balcone penzolavano solo enormi e slabbrate mutande e deformi calzini, fantasmini e calze di spugna di ogni tonalità vermiglia, in gran parte bucati sull’alluce»
“Verso la quinta settimana di gravidanza, a formarsi per primo è il cuore. E lo fa molto prima di occhi, braccia, gambe e cervello. Lo sapevi, Mia?”. Gabibbo era così: grosso come un bue, con una cicatrice che gli apriva un solco rosa in mezzo a una testa bianca coperta da radi, lunghi e unti capelli neri. Ma quando guardava Mia, nei suoi occhi sembrava che la felicità rimbalzasse come una pallina del flipper. Lei, come sempre, lo guardava fisso senza dire una parola. “Te l’ho detto molte volte: sei bellissima, magari fossi anche intelligente”. Prese, nella sua mano tozza e ricoperta di peli, quella piccola di lei, accarezzandola tra pollice e indice come quando si sfrega una banconota, come quando si allude al vil danaro senza volerlo nominare, o come quando si fanno piovere sulle pietanze, con le dita, lo zucchero, il sale o il formaggio grattugiato. Lo chiamavano Gabibbo perché non indossava altro colore che il rosso. Al suo balcone penzolavano solo enormi e slabbrate mutande e deformi calzini, fantasmini e calze di spugna di ogni tonalità vermiglia, in gran parte bucati sull’alluce. Nei cassettoni del suo frigorifero, chili e chili di pomodori marci. Sulle guance di Mia, due cerchi così rossi che sembrava passasse il giorno a torturarsele di pizzichi. Così, vestito di rosso lui, con una bandana tra i capelli biondi e spigati lei, si avviarono verso la metropolitana del quartiere a passi curvi e sbilenchi. Lui camminava così curvo da sembrare un enorme punto interrogativo. E lei era sicuramente quel punto sottostante, quello che inchiodava a terra, anzi al tappeto, tutte le domande di lui. Gabibbo si accese una sigaretta: due boccate rapide, e un’enorme nuvola di fumo si liberò attraversando gli spazi tra i denti, come si illude di potersi liberare un carcerato quando infila le braccia tra gli spazi delle sbarre. La nuvola raggiunse il viso di Mia, che iniziò a sbattere le ciglia con un movimento aritmico e poco sincronizzato degli occhi: velocissimo il sinistro, quasi arrancando il destro. A Gabibbo non piaceva uscire di casa la mattina presto. Disprezzava il colore delle albe perché quasi gli accecava gli occhi e la notte, del buio, aveva paura. Per questo motivo, estate o inverno, si poteva vederlo passeggiare in compagnia di Mia solo nelle ore dai colori caldi e rossi del tramonto. Era proprio in quelle ore, quindi, che le bande di ragazzini del quartiere, si sguinzagliavano alla ricerca della strana coppia. Li accerchiavano e iniziavano a cantilenare “Gabibbo, Gabibbo”: il gigante buono c’era abituato, del resto era un po’ quello che gli succedeva da piccolo tra i banchi di scuola. Ma, se all’epoca, codestinatario delle offese era suo padre, un omone di 150 kg anche noto come “palla di lardo” o “elefante” o “balena” a seconda dei gusti personali ed estemporanei dei compagni di classe, oggi ad essere presa di mira insieme a Gabibbo era Mia. Occhi di vetro, bambola assassina e morta vivente erano i complimenti a lei rivolti. Lui, che ogni volta che era stato deriso nella vita, non aveva reagito mai, al solo sentir nominare la sua lei, come quando alle elementari nominavano il suo amato papà, andava in escandescenza. Iniziava a digrignare i denti agitando furiosamente le braccia in aria, camminando con un’andatura ciondolante e lentissima, che spostava alternatamente il suo enorme peso da un lato all’altro del corpo. Quel giorno, Gabibbo era così di buon umore che era ben deciso a non farsi condizionare da quei ragazzini maligni che avrebbero sicuramente incontrato. Nei mesi precedenti gli avevano lanciato pietre, pomodori, uova. Gli avevano buttato avanti ai piedi miniciccioli accesi o enormi scarafaggi di plastica. La prima volta che i piccoli botti a forma di aglio gli esplosero tra i piedi lo spavento fu tale che nell’agitazione Gabibbo scaraventò per aria Mia provocandole un trauma all’occhio destro. Era da allora che non riusciva più ad aprirlo bene. Un giorno, addirittura, approfittando della distrazione di Gabibbo e Mia che si guardavano fissi negli occhi senza dirsi nulla mentre erano seduti su una panchina del parco, due ragazzetti ossuti e sghignazzanti bruciacchiarono i capelli di lei con un fiammifero e svuotarono sui radi capelli di lui una fialetta puzzolente. Quella volta, i due innamorati tornarono alla loro casa umida e sporca più fetidi del solito. “Ma cosa ho fatto Mia, per essere trattato così? Io sono buono con tutti Mia, eppure tu sei l’unica a volermi bene”. E spesso la serata finiva così, con Gabibbo dalle grasse guance rigate di lacrime, che abbracciava forte la sua Mia riempiendole il viso di bavosi bacetti.
Quel giorno, comunque, non sarebbe accaduto. Gabibbo sarebbe tornato a casa sorridente così come era uscito: nulla e nessuno lo avrebbe scalfito, e lui e Mia sarebbero stati felici, così come meritavano. I ragazzini si sarebbero avvicinati come al solito, ma lui gli avrebbe sorriso con ogni dente a sua disposizione, li avrebbe guardati con dolcezza e avrebbe provato a comunicargli quanto lo facessero soffrire le loro offese. Gli avrebbe detto che avrebbe preferito giocare con loro, anziché doversi difendere, e così avrebbero finalmente compreso, e sarebbero tutti andati a mangiare un gelato insieme a Gabibbo e Mia. Mai più pietre, né pomodori, né uova, nè miniciccioli, né fialette puzzolenti o fiammiferi per bruciare i capelli di Mia. Solo un cortese salutarli in coro quando li avrebbero incrociati durante la loro passeggiata al calar del sole e l’inizio di una nuova epoca, in cui tutti avrebbero potuto passeggiare e giocare insieme. Immerso in questi pensieri, Gabibbo non si accorse di Lupo. Lupo era il capo della banda. Lo chiamavano così per via di una precocissima cataratta all’occhio sinistro: il riflesso bianco nella pupilla la rendeva opaca e inespressiva, conferendo a quella faccia una glacialità inedita per essere il volto di un bambino. E con quegli occhi da canide selvaggio, Lupo guardò con quanto odio aveva in corpo Gabibbo, fulminandolo dal basso dell’asfalto su cui era stato inavvertitamente spinto dall’enorme ventre dell’uomo. “Perdonami Lupo, non vole…”: Gabibbo non ebbe il tempo di finire la frase che Lupo scattò in piedi, costringendo l’enorme punto interrogativo rosso a raddrizzare la schiena e trasformarsi in un ritto e grasso punto esclamativo. Lupo non disse una sola parola e con violenza afferrò Mia per i capelli biondi, spigati e bruciacchiati. Con la mano destra tratteneva la bandana blu, con la sinistra il collo di Mia. E mentre fissava con la lingua di fuori e stretta tra i denti l’enorme omaccione, tac! Con lo stesso movimento di quando si spezza un ramo, staccò la testa dal collo di Mia. “Guarda come è innamorata, Gabibbo! Ha perso la testa per me”. E ridendo sguaiatamente la lanciò sprezzante verso gli amici, prima di correre da loro e cominciare una gara di palleggi. “Scusami Lupo, non volevo farti cadere”, gli urlò Gabibbo amplificando il suono con la mano dritta all’angolo della bocca. “E tenetevi pure la testa di Mia, non preoccupatevi! Tanto il primo a formarsi nella pancia delle mamme è il cuore. La testa, per l’amore, non serve”. L’ora del tramonto era trascorsa. Gabibbo e il tronco senza testa di Mia andarono verso casa, erano così incompleti da sembrare due virgole.