Danilo Maestosi
Alle Scuderie del Quirinale di Roma

L’arte dell’eternità

La mostra (in chiusura) dedicata al mito di Pompei e Santorini riflette sul rapporto tra realtà e illusione, tra natura e influenza dell'uomo. Perché l'arte ha sempre cercato di interloquire con l'eternità. Specie imitando la natura

No, non è una recensione. Arriverebbe troppo tardi. La mostra «Pompei e Santorini» alle Scuderie del Quirinale chiude il 6 gennaio. Resta però l’invito a visitarla. Un po’ di tempo c’è ancora. E ne vale la pena. Perché regala visioni ed emozioni davvero preziose. Spunti di riflessione e giochi di associazione quanto mai attuali, anche se mette in vetrina cimeli di un passato remoto. Al centro dei riflettori due sciagure, due devastanti eruzioni vulcaniche. La prima, quella del Vesuvio, fine estate del 79 d.C. entrata nella storia due volte: all’epoca del disastro perché documentata da fonti dirette, testimonianze dal vivo che emanavano dalla capitale dell’impero romano nella fase della sua massima espansione: e poi due secoli fa quando i primi veri scavi ordinati dal Regno Borbonico restituirono alla vista la vita e i tesori di una florida città antica di provincia sepolti e congelati nel tempo sotto una valanga di cenere e lapilli, eccitando la fantasia, lo stupore e le mode di tutte le corti e i salotti d’Occidente.

La seconda, l’eruzione di un vulcano sommerso che distrusse e trasformò in un enorme cratere a semicerchio di scogli e terreni rocciosi l’isola di Thera, l’attuale Santorini, fiorente centro marinaro delle Cicladi, avvenne all’alba dell’età del bronzo, attorno al 1600 a.C. Un evento di proporzioni dilatate che la Storia stenta ancora a registrare e inquadrare con esattezza. E consegna dunque alla leggenda, unendolo ad un altra catena di disastrose sciagure, naturali e belliche, che duecento anni più tardi misero fine alla civiltà minoica, con cui Thera era federata. La realtà trasfigurata nel mito e nel miraggio di Atlantide, fastoso relitto di una età dell’oro inghiottita dal mare e perduta per sempre, cui continua a dare la caccia una folla di esploratori visionari, sgranando ipotetiche mappe di avvistamenti, che dall’Egeo si trasferiscono in altri luoghi del Mediterraneo fino a varcare la soglia delle Colonne d’Ercole e affondare nell’Oceano Atlantico.

Pompei-Santorini. Una simmetria di destini e ricadute d’immaginario che solo in parte giustifica il sottotitolo un po’ enfatico «L’eternità in un giorno», con cui questa mostra si presenta, intrecciando frammenti e opere d’arte d’epoca con un campionario di lavori di autori moderni, dall’Ottocento a oggi, che giocano su due registri: lo spettacolo della morte e la messa in scena del Vulcano in azione. È il richiamo all’eternità, inventata per abbracciare una quantità sterminata di tempo, che mi sembra inadeguato e fuorviante. Un iperbole tutt’altro che innocua. Che produce abbagli fatali. L’eternità, un valore che appartiene al territorio della fede e della religione, non mi sembra applicabile alla Natura e alle sue manifestazioni. All’Universo come al pianeta che abitiamo, che hanno avuto un’origine, la Creazione o il Bing Bang, e dunque sono esposti alla probabilità di una fine e magari di un altro inizio. L’eternità, insomma, è un eufemismo che dà conforto, ma partorisce trabocchetti e miraggi. Assegnato alla Natura, impedisce all’uomo di comprenderne l’indifferenza, il distacco con cui distribuisce sciagure e cataclismi o si mette in posa per incantarci con le sue bellezze. È un freno alla previdenza. Sia che si tratti di porci al riparo dalle sue furiose intemperanze, sia che si tratti di preservarla dalla nostra ottusa avidità.

Pompei è una parabola esemplare di questa caduta di attenzione e responsabilità. Gli abitanti delle città vesuviane avrebbero avuto forse il tempo di fuggire, quando gli indizi dell’eruzione si erano fatti evidenti. E invece è stata una strage. Quelli che un millennio e mezzo dopo sono tornati a popolarle, costruendo una selva di paesi, case, persino di scuole, ospedali, edifici pubblici, arrampicati sulle pendici del Vulcano, in letargo ma ancora attivo, si sono confinati in un limbo di irrispettosa incoscienza. Una nuova esplosione coglierebbe impreparati anche loro: le strade malprogettate di quell’orrendo labirinto di cemento non riuscirebbero a contenere in tempi rapidi un esodo massiccio di quasi mezzo milione di persone in preda al panico.

Eternità è anche una definizione di comodo che si attribuisce alle opere d’arte per registrare la loro capacità di durata oltre i confini di tempo di chi le ha prodotte. E ai relitti del passato che l’archeologia ci restituisce con i suoi scavi, aiutandoci a ritessere con ritrovate emozioni la trama sottile e sfilacciata della Storia e delle nostre identità culturali. La fortuna delle rovine di Pompei è fondata proprio su questo senso, illusorio (basta pensare all’altalena di interventi e stanziamenti per la manutenzione dell’area) ma contagioso e condiviso di eternità che ci trasmettono. Difficile stabilire se la stessa sorte verrà riservata alle opere d’arte contemporanea che a quei cimeli e a quelle scoperte si sono ispirate, e di cui questa mostra ci offre come misura di confronto un piccolo ma significativo campionario d’autore: da Burri a Penone, da Warhol a Damien Hirst. La scomparsa e la distruzione dell’aura che arricchiva l’impatto delle opere d’arte, il sempre più veloce mutare delle mode e del gusto, il culto d’eterno presente che domina la comunicazione via web, aprono molti dubbi a riguardo.

Come ogni investimento concettuale il senso d’eternità trae forza soprattutto da due ingredienti emotivi, che ci inondano quando lo stupore travalica le dighe della ragione. La bellezza e il mistero. Gli affreschi della case pompeiane, quegli stupendi, rigogliosi giardini riscoperti intatti dagli scavi e messi al sicuro in antiquari e musei, quelle fascinose storie di uomini e dei dipinte sulle pareti ci restituiscono a colpo d’occhio l’incanto e la freschezza di questo intreccio: la bellezza delle forme, delle partiture architettoniche, delle invenzioni pittoriche, e l’impronta enigmatica lasciata da chi ha scelto e vissuto tra queste meraviglie.

Ma una dose ancora più forte e coinvolgente di bellezza e mistero emana a mio avviso dai cimeli ritrovati tra le rovine di Akrotiri, il centro urbano di Thera, in scavi e sistemazioni più recenti che pochi visitatori di questa mostra hanno avuto la fortuna di ammirare, e che mai erano stati esposti qui a Roma. Pagine e testimonianze di una storia più antica, che gli archeologi stanno ancora cercando di decifrare.

Sappiamo che Akrotiri fu distrutta e cancellata sotto quattro metri abbondanti di cenere e lapilli da un eruzione databile attorno al 1600 a.C. E forse ancora più devastante di quella del Vesuvio. Le rovine evocano la struttura e le architetture di un nucleo urbano e di una comunità organizzata e particolarmente evoluta di pescatori e mercanti in stretto rapporto con Creta, e le sponde di altri regni dell’Asia minore e dell’Africa. Eppure sul posto non sono stati trovati corpi e resti umani. Più che probabile che, messa sull’avviso da precedenti scosse telluriche, la popolazione sia riuscita a fuggire via mare, scampando anche allo tsunami scatenato dall’esplosione. Insomma un esodo di massa. Verso quali direzioni? L’attuale Turchia, la Mesopotamia, l’Egitto?

La rotta più seguita è verso Creta, che era il centro motore e di governo di quella civiltà e sicuramente accolse senza conflitti quei migranti provenienti da una propria provincia. Una salvezza che fu quasi una beffa. Duecento anni dopo anche il regno minoico di Creta crollò. Cancellato da un’altra catena di sconvolgimenti naturali, di cui si trova traccia in fonti più tarde. Ma più ancora dall’invasione di un’altra civiltà più bellicosa, quella micenea, attestata sul vicino continente, la Grecia. Una nuova stirpe di dominatori, gli Achei, che trascina la nostra immaginazione verso un altro evento divenuto leggenda: la guerra di Troia.

Anche lì a Micene un palazzo reale più austero di quello di Cnosso, capitale di Creta. Anche lì i resti di pareti affrescate. Con tecniche simili ma temi e soluzioni stilistiche molto diverse. Dipinti di eserciti in marcia e combattimenti, prendevano il posto dell’universo variopinto e aggraziato della pittura dei centri minoici. Un senso di sconfitta e di perdita che accompagna lo spettacolo degli affreschi e dei vasi esposti in questa mostra. Reso ancora più irreparabile dagli echi di straordinaria attualità delle pitture di Santorini.

Quelle figure di giovani e pescatori seminudi, di dei sorridenti, che sconfiggono la rigidità dell’inquadratura di profilo con una mobilità di segni e metamorfosi di tratteggio, che ci appare come un presagio del liberty. Quella libertà di contrasti cromatici e accostamenti spudorati di colori primari che sembra specchiarsi qui in mostra nella tavolozza serigrafica con cui Andy Warhol immortalò negli anni Ottanta l’eruzione del Vesuvio.

Facebooktwitterlinkedin