Giuseppe Grattacaso
A proposito de "L'ufficiale e la spia"

Polanski (e il silenzio)

Viaggio al centro della verità manipolata: raccontando l'affaire Dreyfus, Roman Polanski descrive (senza mai alzare i toni) le dinamiche di una società che mente per difendere gli "interessi superiori" dello Stato

Qualcosa rende grande L’ufficiale e la spia, il nuovo film di Roman Polanki, e non è la materia che tratta, e nemmeno solamente il rigore stilistico con cui il regista affronta il celebrato affaire Dreyfus. La vicenda del capitano dell’esercito francese degradato nel 1895 e mandato al confino con l’infamante accusa di spionaggio è nota, così come è universalmente conosciuta la reazione di una parte della cultura francese, in particolare l’assunzione di responsabilità dell’allora affermatissimo Emile Zola, che portò il caso all’attenzione della cronaca e della coscienza nazionale con il suo spietato J’accuse (che è anche il titolo originale del film), che gli valse un processo e una condanna per diffamazione.

È evidente d’altra parte che la triste vicenda del capitano di origine ebraica Alfred Dreyfus oggi, ancora più che allora o nelle varie rivisitazioni anche cinematografiche del secolo scorso, possa essere considerata un esempio vistoso e storicamente accertato della possibilità di manipolare dati reali e informazioni al fine di rendere più solido il consenso, nel tentativo di rinvigorire una posizione di potere. L’avvento di un giornalismo più consapevole e libero, la diffusione dei social, la propagazione delle notizie attraverso il web hanno da una parte aumentato gli strumenti a difesa della libera circolazione delle idee, e quindi della possibilità del cittadino di conoscere quello che accade nel mondo, dall’altra hanno reso possibile la dilatazione della menzogna, la deflagrazione dell’inganno, la mistificazione della realtà, utilizzati più che spesso per rendere possibili macchinazioni a danno di altri.

Polanski racconta tutto questo, ma riesce a fare in modo, malgrado le sue vicende personali avrebbero potuto portarlo da tutt’altra parte, che la passione non diventi mai sermone o imprecazione, ma continui a marciare sempre scortata da un senso di compostezza, da un’eleganza formale, che finisce peraltro per contrastare, in maniera molto significativa, anche se mai troppo evidente, con la distinzione sfilacciata e di maniera del mondo che descrive. Il nitore delle immagini, la precisa definizione di ogni ambiente servono a mettere in luce la falsità dei rapporti tra gli alti gradi dell’esercito, a sottolineare come proprio quello che appare più chiaro possa contenere una coscienza torbida e limacciosa.

Le scene sono costruite con una misura e una sobrietà che non lasciano spazio a nessuna eccitazione emotiva. Proprio quando la storia è nel momento di massima tensione e Georges Picquart, l’ufficiale alle prese con la ricostruzione della vicenda di spionaggio, è vicino a rendere possibile lo smascheramento dell’errore giudiziario e la riabilitazione del militare condannato e offeso, proprio allora la narrazione smorza ancora di più i toni e sceglie la strada della pacatezza e di un’accuratezza quasi indifferente. Più i personaggi si muovono nella perfezione stilistica cui il regista costringe l’intera pellicola (ribadita ogni tanto da citazioni dai dipinti dell’impressionismo), quasi a sottolineare l’intenzione di una disinteressata ricostruzione storica, che sembrerebbe voler ancorare la vicenda al passato, più il film procede senza i lacci imposti dalla veridicità, tanto da farci scoprire che la condotta deplorevole delle alte sfere dell’esercito e della politica ci appartiene, che essa parla, sia pure senza mai alzare i toni, dell’epoca malsana in cui stiamo vivendo.

Si ha l’impressione che con L’ufficiale e la spia Roman Polanski abbia voluto in fondo immergerci nel nostro vissuto quotidiano, ormai assorbito senza fastidio e senza nessuna reazione emotiva, proprio cancellando ogni emozione, così come, nella splendida interpretazione di Jean Dujardin, il colonnello Picquart, a capo della sezione di controspionaggio, procede senza scosse e senza particolare partecipazione sentimentale alla vicenda, solamente sostenuto dal suo senso del dovere, dall’amore del ruolo che ricopre, eppure agendo con coraggiosa determinazione, quasi a voler mettere in risalto che in epoche in cui si è smarrito il senso della dignità, il decoro e la compostezza sono già una forma di rivoluzione.

In una delle prime scene del film, il capitano Dreyfus, mentre sta per recarsi dai suoi superiori che lo condanneranno senza permettergli nessuna difesa, si lascia scappare la frase “C’è un po’ troppo silenzio, non vi pare?”. È una domanda che la storia di quell’uomo, nella rilettura che ne fa Polanski, rivolge a tutti noi.

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