Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Matti da slegare

Visita obbligata al Museo Laboratorio della Mente nell’ex manicomio Santa Maria della Pietà di Roma. Dove, insieme ai “reperti” sopravvissuti della vita dei degenti, una mostra di grandi dipinti di Monica Lundy ci racconta la tragica esistenza di reclusi

“Da vicino nessuno è normale”. Grandi lettere nere, di diverse dimensioni, siglano la fine del percorso in un museo che tutti dovrebbero visitare. La frase è di Franco Basaglia, lo psichiatra fautore della legge 180, che nel 1978 decretò la fine dei manicomi in Italia. Il museo è quello della Mente, situato nel principale ex manicomio del Bel Paese, il Santa Maria della Pietà di Roma. Un complesso di per sé da conoscere, ora che ci entrano ed escono i cosiddetti normali, perché tra le palazzine primo Novecento, le aiuole, i viali alberati, le fontane graziosamente lobate, c’è il via vai di chi di reca in uffici comunali o della pubblica sanità, che qui sono stati dislocati dopo che l’ultimo “matto” è uscito dalla sua prigione, nell’anno Duemila. E c’è anche l’andirivieni di persone in tuta e scarpe da ginnastica, che vengono a fare footing in questo complesso di 130 ettari alla periferia Roma Nord, nella parte più alta di Monte Mario e a ridosso della campagna, dove insomma l’aria è buona.

Ma torniamo al Museo Laboratorio della Mente. È ospitato nel Padiglione 6, uno dei 24 dove alloggiavano i malati di mente, gli uomini rigorosamente separati dalle donne. Un “museo di narrazione” viene definito, perché una serie di sale dotate di dispositivi multimediali interattivi permette al visitatore di “infilarsi” nella deformazione della percezione che assilla un malato psichiatrico. E perché attivati dai gesti del visitatore stesso, schermi proiettati sui bianchi muri cominciano a raccontare le storie di chi qua dentro ci ha passato dieci, venti, anche cinquant’anni, entrato ragazzo magari solo perché orfano e morto in uno di quei padiglioni giallo ocra (che dovrebbero essere presto restaurati con un finanziamento di 17 milioni della Regione Lazio e della Asl RM1).

Matti, infermieri, medici, suore: la popolazione del Santa Maria della Pietà. Uno spazio dove il tempo, a causa della spersonalizzazione dei degenti, si fermava. Lo racconta anche una mostra di grandi dipinti di Monica Lundy – tavole accostate come nei polittici (foto sotto) – che resteranno esposti nelle sale del Padiglione 6 fino al 14 dicembre (dal lunedì al sabato, ore 9-17): La perdita del futuro, vite nel Santa Maria della Pietà, il titolo, che deriva dalla lunga frequentazione, da parte dell’artista americana, degli archivi dell’ospedale, dai quali ha tratto brandelli di esistenze negate perché, dice Basaglia in uno dei video da attivare nell’ambiente principale, «dove i matti sono legati nessuna cura è possibile». Dunque Monica Lundy, in un bianco/nero che è poi color biacca e tonalità ferrigne, una tinta che spesso s’incrina in sottili crepe, raffigura le malate chine sui ricami sedute accanto alle suore; e le vitelle che pascolavano nei campi intorno e i cumuli di panni nei cesti della lavanderia. In un tempo fermo, da perdita del futuro, ancora un’espressione di Basaglia, che fece appena in tempo a vedere varata la 180, perché morì di tumore cerebrale due anni dopo, a 56 anni.

L’ossessione del tempo è anche quella che ispira i dipinti di Gianfranco Baieri, figlio di N.N, come è scritto nella sua scheda di malato che si fece ricoverare spontaneamente e che al Santa Maria della Pietà visse per mezzo secolo. I suoi dipinti vivacizzano ora il salone centrale del Museo con i toni del rosso, del verde, del marrone («Per me il colore più importante perché è quello della terra» dice in un video che si attiva accanto alle opere). Un orologio rosso sbarrato da lancette scure e nel quadrante un personaggio naif ammantato di nero; e in altri dipinti faccine incasellate come in una scacchiera, ma sono sbarre. Mentre una valigia è istoriata di colori accesi, una speranza allegra. Lo schizofrenico – almeno secondo la cartella clinica – Oreste Fernando Nannetti invece istoriò a graffito un intero muro dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra per affermare la sua “presenza” negata: e lo fece usando la fibbia della divisa manicomiale. Quei graffiti sono stati “trasportati” nel padiglione 6 che li esibisce su un lungo pannello trasparente: dietro al quale intravediamo oggetti simbolo del manicomio, appesi sghimbesci alla parete: apparecchi per l’elettroshock tutti spinotti e manopole; un letto di legno con la fascia di contenzione; stipetti e cartelle cliniche.

Altri due ambienti restituiscono la farmacia dai mobili di mogano a vetrina pieni di boccette di vetro con l’etichetta scritta a mano – stricnina, spirito di lavanda, mentolo, novocaina – e la mensa dove su un tavolo sono poggiati una scodella e un boccale di metallo insieme con tre libri, il regolamento manicomiale, una copia di cartella clinica, un registro di consegne. Basta passarci sopra il palmo della mano e si aprono con immagini multimediali mentre una voce racconta vite: «Di borghese non avevamo più niente – dice uno dei degenti. I nostri abiti erano buttati in fagotteria e ormai erano lì ammuffiti…». E infatti la riproduzione della fagotteria mostra pacchi di carta paglia legati con lo spago grosso, un paio di scarpe nere buttate da una parte, registri con l’elenco del povero corredo dei matti. Inquieta la camera di contenzione, nella quale si sbircia attraverso un buco della porta di legno grosso; inquietano le forchette appese a una parete mentre una voce racconta la “battaglia dei coltelli”, come la chiamarono i giornali. La fece Lia Traverso, che restò solo due mesi al Santa Maria della Pietà e poi fu trasferita in un altro manicomio vicino Roma, dove morì a 33 anni. Ebbene, fu una rivoluzione perché i malati per mangiare avevano a disposizione solo cucchiai da minestra, il resto del cibo lo spezzavano con le mani. Lia chiese forchette e coltelli per tutti.

La diagnosi per lei fu la solita, schizofrenia. Tanti altri sentivano le voci dentro. Così una postazione multimediale è costituita da un tavolo che ha al centro due pulsanti: poggiandoci sopra i gomiti e serrando le mani alle guance ne escono voci che si accavallano. Ma in un altro locale è la percezione visiva che “impazzisce”: è la cosiddetta camera di Ames, dal nome dello scienziato che la ideò nel 1935. Due salette affiancate, una col pavimento in discesa, ciascuna sormontata da archi di diversa altezza, ciascuna arredata solo con una sedia. Due visitatori vi si siedono, un terzo che li guarda da un foro esterno li vede di dimensioni opposte, gigante e nano: un’interpretazione soggettiva della mente, nello «stesso meccanismo che ci porta involontariamente a stigmatizzare la diversità», spiega la piccola guida al museo. E poi le facce: una galleria di ritratti effettuati negli anni 30 dallo psichiatra Romolo Righetti testimonia attraverso l’arte i segni della diversità dei malati, resi invece tutti uguali dalla vita nei padiglioni, dove lavavano i pavimenti, le stoviglie, i lenzuoli, pagati con poche lire e tre sigarette. Oltre che dai ritratti gli sguardi degli esclusi emergono da una lavagna multimediale. E sagome indefinite ondeggiano in un annebbiato muro di vetro. “Entrare fuori/uscire dentro”, un’altra metafora della reclusione. Come è poi andata a finire la “liberazione dei matti” lo spiega una serie di 12 video – ciascuno dura pochi minuti – che ripercorrono i 30 anni dalla approvazione della Legge Basaglia, ancora oggi dimidiata dalle criticità nel modello italiano dell’assistenza psichiatrica. (Foto: © Valter Sambuchi).

 

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