Cronache infedeli
Il Muro di Londra
A trent'anni da quello di Berlino, a Londra è caduta la Muraglia Rossa. E con lei tanti miti del progressismo europeo: i minatori, gli operai, la rabbia e la voglia di riscatto. L'Inghilterra è sospesa tra vecchio secessionismo e anacronistica fedeltà una sinistra che non c'è più
«Sotto una pioggia sferzante si avviano verso i seggi elettorali, in lenta fila, ex minatori, impiegati di supermarket, insegnanti in pensione, infermieri: quelli che una volta furono il popolo della sinistra…». È una scena da Terra desolata, quella che l’inviato del New York Times dipinge nel suo viaggio in un paese che non c’è più: tra le strade deserte di Barlborough, la cittadina piazzata nel centro delle Midlands britanniche, e poi su al Nord, quel Nord che per decenni fu bastione socialista, e che ora non è più nulla. Polvere di carbone, polvere di orgoglio disfatto, polvere di illusioni politiche: come Barlborough si arrendono alla destra altre cento piccole città, un tempo orgogliosamente arroccate nella «Muraglia rossa» laburista e il 12 dicembre espugnate dalle arrembanti truppe degli eredi dell’arci-nemica Margaret Thatcher.
Boris Johnson, rampollo scapigliato delle classi alte londinesi, vince e fa saltare il banco della storia e anche della geografia, conquista se non il cuore, la pancia di chi per una vita ha votato a sinistra. Ascoltate Dawn Ridsdale, 56 anni, commessa disoccupata: «La mia tradizione è laburista, la mia storia è la storia dei minatori che hanno combattuto Margaret Thatcher. Non ero d’accordo con la Brexit, ma oggi il Paese è con le spalle a terra, e mio malgrado ho dovuto votare per Boris: nel brutto mazzo dei politici, lui è il migliore».
Così si consuma – a sinistra – una mesta cerimonia degli addii. Addio agli ingegnosi disoccupati di Full Monty. Ricordate? era il lontano 1997 e quei ragazzi di Sheffield che si inventano spogliarellisti per non morire di fame nella città depressa e depredata facevano battere il nostro cuore di sinistra al ritmo di You can leave your hat on. Era lo sberleffo di una sinistra sconfitta ma non atterrata, giovani corpi e menti sveglie, pronti alla rivincita.
Addio anche agli indimenticabili personaggi di Ken Loach, minatori e disoccupati di città perennemente in guerra contro l’artiglio spoliatore del capitalismo, la depressione in famiglia, la miseria in agguato. Così sfacciato, Ken il rosso, da adottare come titolo di uno dei suoi film più amati una profezia dell’amara sapienza britannica: «Quando piove sui poveri, piovono pietre».
Addio al mito fondativo dei minatori al lavoro e in sciopero, che per mezzo secolo ha animato la storia di una parte dell’antico Paese, patria della democrazia occidentale. Quei minatori che ancora Ken Loach descrive come eroi di una moderna tragedia greca. «Da che parte state?», chiedeva a noi e a se stesso il regista, mostrandoci le cariche della polizia a cavallo, il ghigno della Dama di ferro, la chiusura forzata delle miniere, i borghi rugginosi e neri, i pozzi in rovina, i volti chiusi delle donne e degli uomini delle Midlands.
Addio, infine, ai proletari e a tutto il proletariato della Muraglia rossa che il 12 dicembre si è consegnata armi e bagagli al peggior nemico storico – la destra secessionista inglese – per difendersi da un esercito di nemici immaginari, mostri favolosi come l’Europa matrigna e l’invasione degli immigrati.
Qui, in queste lande devastate dalla fine dell’economia mineraria, il sovranismo made in England ha compiuto il suo capolavoro. Il ricorda con rabbia, che fu lo slogan dei giovani intellettuali insoddisfatti all’alba degli anni Sessanta, è diventato il guarda con rabbia dei proletari che hanno scelto in massa il partito di Boris Johnson: rabbia contro gli immigrati, rabbia contro l’economia post-industriale, rabbia contro l’informazione mainstream, rabbia contro l’élite politica del sud, rabbia infine contro Londra. È davvero venuta meno una grande mascherata, come denuncia con disprezzo lo scrittore Bobert Harris? «Pensate alla passione delle classi popolari per la famiglia reale. I proletari inglesi vanno d’accordo con chi gli permette tutti i peggiori vizi di questo paese. Boris questo l’ha sempre rivendicato, mentre gli operai hanno sempre odiato uno Stato balia che li controlli, come invece vorrebbe la classe media».
Per i laburisti non è solo una sconfitta elettorale – la peggiore dal 1935 – ma una debacle storica che disegnerà il paesaggio politico britannico per i prossimi decenni. Nelle urne si è consumato infatti il divorzio tra le due forze sociali e geografiche che tradizionalmente, nelle sconfitte come nelle vittorie, costituivano la base elettorale del partito: il ceto cittadino evoluto e il popolo dei leftbehind, i rimasti indietro nei villaggi impoveriti del carbone, lungo la Muraglia rossa. Le due ali del partito – i vecchi e i giovani, i favorevoli e i contrari all’immigrazione, i laureati e gli artigiani – si sono infine divise. Come spiega Robert Tombs, storico dell’Università di Cambridge: «È il distacco del Labour da grandi fasce di popolazione che lo hanno abbandonato, e questo pone il partito in una posizione difficile a lungo termine, a meno che possa miracolosamente reinventarsi».
Reinventarsi, dunque. Nella cerimonia degli addii, l’ultimo è dedicato al grande sconfitto, l’uomo che ha portato il partito alla catastrofe del voto. «Jeremy Corbyn è stato un arsenico elettorale», commenta sprezzante la columnist del Guardian Polly Toynbee. E appunto The Guardian ha coniato il più velenoso neologismo di queste ore: la «Corbynite» ha reso impotente il Labour come nei vecchi cartoons la kriptonite rendeva impotente Superman. Suona infine come un de profundis l’amaro appello del quotidiano: «La credibilità è tutto, e Corbyn mancava di credibilità come nessun altro. Senza credibilità tutto è perduto, pensa a questo, elettore del Labour. Sarà necessario un lungo, lungo viaggio per risalire la china dopo questa caduta. Poi ci sarà tempo per considerare nuove speranze. Oggi è il tempo di confrontarsi con la realtà».
Del resto, basta aggirarsi per le vie di Londra in questa vigilia di fine anno per misurare l’estraneità del partito modellato da Jeremy Corbyn ai ritmi, alle idee e alle tendenze della grande metropoli. La capitale del 2020 è ancora e sempre più la London calling (“Londra richiama”) che i Clash cantavano nel dicembre del 1979. Da allora, quaranta anni sono passati, e trenta anni sono trascorsi dalla Cool Britannia di Tony Blair: in questo lungo tragitto la capitale si è confermata come straordinaria e vitalissima città-stato. Il suo simbolo è uno sfolgorante cosmopolitismo, lontano mille miglia dall’isolazionismo dei nuovi/vecchi sovranisti, ma anche estraneo allo statalismo, all’assistenzialismo, alla chiusura economicistica del rovinoso manifesto elettorale del Labour. Questo è oggi e per il futuro il grande interrogativo: riuscirà la grande città, il cuore pulsante di una intera nazione, a sopravvivere all’inverno della Brexit?