Periscopio (globale)
I due Theodor Fontane
Prima il diarista, autore di fortunati reportage, e solo dopo il narratore: l'avventura letteraria di Theodor Fontane mostra la sua forza anche nella sua doppiezza. Rileggiamolo a duecento anni dalla nascita
Accade a volte agli artisti di vivere due vite ben distinte, spesso contemporanemente: a Theodor Fontane è toccata in sorte un’esistenza divisa in due. Ex farmacista di origini francesi, discendente da una famiglia di ugonotti calvinisti rifugiatisi in Prussia nel XVII secolo per sfuggire alle persecuzioni religiose, Fontane si fa conoscere all’inizio e per buona parte della sua carriera letteraria come chroniqueur di viaggi, e sarà solo a partire dai sessant’anni – seconda vita, appunto – che si dedicherà alla narrativa. Esordisce nel 1878 con un romanzo storico, Vor dem Sturm, nella tradizione di Walter Scott, che racconta della sollevazione prussiana contro Napoleone nel 1813. Questo libro rappresenta però solo un primo tentativo nel campo del romanzo e ha poco a che spartire con i successivi, grandi affreschi dedicati anch’essi all’allora recente storia della Prussia, da Schach von Wuthenow (1883) a Unwiederbringlich (1891), mentre Graf Petöfy (1884) costituisce una parentesi almeno geografica, in quanto si svolge subito dopo i moti del ’48 a Vienna e nella provincia ungherese.
In parallelo, Fontane si dedica a romanzi di taglio più sociale, in cui prevalgono i temi dell’adulterio e soprattutto della mésalliance: fra i primi sono da menzionare almeno L’Adultera (1882) e Effi Briest (1895), anche se l’adulterio compare anche nei citati Graf Petöfy e Unwiederbringlich, mentre in Cécile (1887) non manca la scena di un duello a causa di una donna. Fontane ha però più volte dichiarato di non essere particolarmente interessato all’adulterio in quanto tale, già trattato da altri scrittori coevi – si pensi solo a Flaubert. In effetti, più che altro sembra servirsene per meglio affinare la tecnica delle conversazioni da salotto, di cui raggiunge nei suoi romanzi una padronanza pressoché perfetta. Fra i secondi, quelli dedicati ai matrimoni sbagliati, citiamo almeno Irrungen, Wirrungen (1888), vero succès de scandale, molto criticato tanto dagli aristocratici quanto dalla borghesia, Stine (1890) e Frau Jenny Treibel (1892), romanzo dall’irresistibile umorismo. Negli ultimi anni della sua vita – morirà nel 1898 – Fontane descriverà la decadenza degli Junker in Die Poggenpuhls (1896), seguito l’anno successivo da Der Stechlin, nel cui protagonista, l’anziano nobile e maggiore a riposo Dubslav von Stechlin, lo scrittore sembra identificarsi pienamente.
Se la scioltezza nei dialoghi e l’accuratezza nella resa del linguaggio, che forse è il punto più alto e personale della sua scrittura, potrebbe far quasi pensare a un nostalgico del Settecento, Fontane è proiettato verso la modernità, rappresenta anzi il punto di passaggio da moduli romantici a opzioni pienamente realistiche; al tempo stesso, tuttavia, accusa un certo ritardo, anche generazionale, al momento di confrontarsi con il naturalismo, che a fine secolo del realismo stava già prendendo il posto. Nei suoi romanzi analizza la decadenza prussiana, la cui rigidità si contrappone al liberalismo, ma lo fa in termini di culto dell’aristocrazia, con un implicito, serpeggiante disagio nei confronti dell’incolta borghesia emergente. In questo contesto, il decoro dell’aristocrazia, anche di quella impoverita, è per Fontane sempre preferibile all’oscuro pulsare delle ambizioni borghesi, tanto da fargli auspicare un legame diretto fra nobili e popolo, fra signori e servitori, nel quale i primi, anche se sempre più squattrinati, si comportano con distacco, eleganza e superiore indulgenza. Sono narrazioni, le sue, non solo ben costruite, ma del tutto condivisibili sul piano etico nella loro tensione ultima verso una società nuova che esprima libertà e tolleranza. Il punto è però che questa adesione quasi illuministica a ideali già tramontati non sembra tener conto della realtà sociopolitica che si andava imponendo alla fine del secolo in tutto il continente e che sfocerà ben presto nel primo conflitto mondiale. La società nuova e ideale che Fontane vagheggia, in altre parole, ben lungi dal realizzarsi, è anzi già superata dai fatti. L’analisi di Fontane si concentra dunque su un solo ceto sociale, l’aristocrazia, appunto, che descrive tuttavia con un’impressionante capacità di coglierne gli aspetti universali. Ben lungi da ogni idealizzazione, Fontane realizza degli stupendi ritratti, soprattutto femminili, facendo confliggere i suoi personaggi con i dogmi e le consuetudini sociali dell’epoca, e aprendo così quasi involontariamente a un’analisi di tipo sociopolitico, più che sentimentale.
Puntiamo a titolo d’esempio i riflettori su Effi Briest, romanzo che dà l’avvio all’ultima fase dell’opera di Fontane. Cos’è mai a rendere quest’opera ancora attuale e leggibile? Fontane vi lavora tra il 1889 e il 1894, per cinque lunghi anni nei quali dovrà rimettersi anche da un’ischemia, anche se dirà sempre che ha scritto il romanzo con estrema facilità, quasi in sogno. Un’anteprima è pubblicata dalla Deutsche Rundschau fra l’ottobre 1894 e il marzo 1895, poi nel corso dello stesso anno Effi Briest esce in forma di libro, riscuotendo subito un enorme successo, tanto che la protagonista sarà paragonata a Emma Bovary e ad Anna Karenina. Eppure, Fontane considerava la storia piuttosto banale, un adulterio e niente di più, che nel Gesellschaftsroman ottocentesco non rappresentava davvero nulla di nuovo. Il punto di partenza della storia era un’affaire effettivamente avvenuta nell’alta società berlinese (il caso Ardenne), ma risaliva agli anni Ottanta e Fontane aveva fatto in modo di modificarne le circostanze. Perché allora tutto quell’improvviso risveglio d’interesse da parte del pubblico, soprattutto – va detto – femminile? Una prima risposta può essere data esaminando il personaggio di Effi, l’unica eroina, fra le tante di Fontane, di cui lo scrittore sembri essersi davvero invaghito. Tutt’altro che perfetta, anzi piena di manchevolezze e difetti, Effi è però pienamente umana, tanto da sembrare “entzückend” (deliziosa) a tutti coloro che la incontrano. La seconda possibile risposta riguarda il rapporto fra Effi e il mondo, perché va detto che anche in quelle opere di narrativa il cui titolo corrisponde al nome della protagonista (oltre a Effi Briest, anche Frau Jenny Treibel e Grete Minde) l’attenzione di Fontane non è mai focalizzata sulla sola eroina, ma appunto sulle sue relazioni, spesso complesse, con l’universo che la circonda. Una terza componente è sicuramente la già accennata maestria di Fontane nei dialoghi, che rende il romanzo godibilissimo. Il quarto motivo, malgrado lo scarso interesse che Fontane attribuiva in cuor suo alle storie d’amore e di coppia, sta nel fatto che l’unione sbagliata fra la diciassettenne Effi e il molto più maturo barone von Innstetten, che aveva a suo tempo chiesto senza successo la mano della madre di Effi, sembra destinata inevitabilmente al fallimento, e quindi a uno scioglimento precipuamente romanzesco. Benché all’inizio Effi ci appaia come un personaggio destinato alla felicità, è quasi subito chiaro che qualcosa non quadra, che le cose non andranno come previsto; più ci affezioniamo al personaggio, anzi, più avvertiamo con disagio questa specie di corsa verso un ostacolo che prima o poi si materializzerà. L’ostacolo è rappresentato qui dalle regole del gioco di una società che peraltro l’aristocratica Effi conosce bene sin dalla nascita, regole che apprezza e condivide, che fra l’altro le assicurano un matrimonio vantaggioso, ma che nel suo caso specifico avranno poi conseguenze estreme. Sposata a Innstetten, è inevitabile che a un certo punto s’innamori dell’aitante quanto fatuo maggiore Crampas, come sarà poi inevitabile che i due si lascino e che Crampas venga sfidato a duello e ucciso da Innstetten, il quale per ragioni di carriera e di onore non può ignorare l’offesa subita, anche se, quando la scopre, la storia di Effi con Crampas è finita già da sette anni e l’adulterio non ha avuto alcuna conseguenza. Va aggiunto che Innstetten è anch’egli una vittima, un personaggio tragico, perché in realtà, forte della saggezza che gli viene dall’età, non vorrebbe nemmeno battersi, ma vi è indotto dalle convenzioni sociali. Tutti i personaggi, insomma, sono costretti a subordinare la felicità e la loro stessa vita al costrutto sociale; e tutti, paradossalmente, fanno parte della classe privilegiata che queste regole ha determinato e imposto a se stessa e alla società tutta. In questo contesto è quasi ironico il fatto che fra Effi e il marito non vi sia una grande differenza in termini di patrimonio, e che il connubio sia motivato dal rango di alto funzionario del governo bismarckiano al quale Innstetten non può rinunciare e per il quale deve assolutamente presentarsi in società con una moglie, meglio se giovane e graziosa. Fino al divorzio, al quale dovrà piegarsi, sapendo perfettamente di rinunciare così – perduta Effi, che ancora ama – a ogni residua felicità.
Le responsabilità che la società dovrebbe assumersi e che invece non si assume è un tema sempre presente, a volte sotterraneamente, altre in modo più evidente, nell’opera di Fontane. Nel 1879, e dunque quindici anni prima dell’uscita di Effi Briest, Fontane aveva compiuto degli accurati studi storici e pubblicato una novella ambientata nel diciassettesimo secolo, Grete Minde, la storia a fosche tinte di una ragazza che, lasciata sola con un bambino piccolo e ripudiata da tutti, finisce per dare fuoco all’intero villaggio in cui viveva. Anche in questo caso l’analisi psicologica dei motivi che spingono un personaggio ancora giovane, teoricamente con tutta la vita davanti a sé, a fare una pazzia si salda e si fonde con un interrogativo più profondo, che riguarda appunto la società e la sua indifferenza nei confronti dell’individuo in difficoltà.
Fontane è stato anche un notevole poeta, eccellendo nella composizione di ballate ispirate alla tradizione anglosassone, e in particolare scozzese, e dunque caratterizzate da certa cupezza, ma sempre ammorbidite da un tratto umoristico. Meritano di essere ricordate almeno Die Brück am Tay (1879), ispirata al crollo di un ponte sull’omonimo fiume in Scozia, che portò al deragliamento di un treno e alla morte di settantacinque persone, John Maynard (1886), che racconta del timoniere di una nave immolatosi, durante l’incendio della stessa sul lago Erie, per salvare i propri passeggeri, e Herr Ribbeck auf Ribbeck im Havelland (1889), storia di uno Junker che si fa seppellire con una grande pera per poter continuare a donare questo frutto ai bambini anche dopo morto.
Dicevo all’inizio che per molto tempo Fontane – nato esattamente duecento anni fa, il 30 dicembre del 1819 – è stato considerato un brillante scrittore di diari di viaggi, in cui raccontava in particolare delle sue escursioni nelle campagne del Brandeburgo, tanto da passare, soprattutto all’inizio, per un Heimatschriftsteller, ovvero uno scrittore provinciale, interessato solo al colore locale. Terminata alla fine del 1848 l’attività di farmacista legata a una tradizione di famiglia (lo era il padre, peraltro grande scialacquatore), e presa, dopo aver partecipato alle lotte rivoluzionarie, la sofferta e difficile decisione di vivere della propria scrittura, Fontane compirà ancora molti altri viaggi, sia per diporto, sia in qualità di giornalista e corrispondente di guerra, lavorando anche nell’ufficio stampa del governo prussiano. Gran parte della vita la trascorre però a Berlino, città con cui avrà un rapporto forte di amore/odio, e questo lo pone già in controtendenza rispetto ad altri scrittori del realismo tedesco, come il suo grande amico Theodor Storm, che invece vivevano in città di provincia o in campagna e narravano maggiormente di una realtà sociale contadina o appunto provinciale. Ma Fontane dimostrerà anche una grande mobilità e apertura al mondo, accettando di vivere e lavorare fra l’altro per cinque anni a Londra, e visitando anche Parigi e l’Italia come semplice turista. Tracce di questi viaggi, con annotazioni talora curiose, si trovano nelle sue lettere, mentre nella poesia Meine Reiselust si legge: “Mehr als Weisheit aller Weisen / Galt mir reisen, reisen, reisen” (“Più della saggezza di tutti i saggi / Per me valse viaggiare, viaggiare, viaggiare”). Rispetto a Londra, che lo affascina anche sul piano culturale – traduce l’Amleto, e Dickens e Scott saranno sempre fra i suoi scrittori preferiti -, Parigi gli sembrerà meno coinvolgente: per poter vivere bene a Parigi, scrive nel 1856 alla moglie Emilie con umorismo, bisogna rispondere a una serie di requisiti: anzitutto conoscere il francese, poi essere dei libertini, giocare d’azzardo, correre dietro alle ragazze, prendere continuamente appuntamenti, fumare tabacco turco, saper maneggiare bene la stecca del biliardo e altro ancora. Ma c’è da dire che a Parigi, durante la guerra franco-prussiana, viene anche arrestato per spionaggio e vi trascorre un breve periodo di detenzione, fino all’intervento risolutore del cancelliere Bismarck. Quanto all’Italia, e a Venezia e Roma in particolare, Fontane ne è impressionato e soggiogato, ma anche intimorito. Perennemente squattrinato, loda Roma soprattutto perché alla portata di tutte le tasche: nella città eterna, scrive nel 1874 in un’altra lettera a Emilie per convincerla a recarvisi con lui, le cose più importanti sono gratuite. Non si paga nulla per andare a Piazza del Popolo o per passeggiare per il Corso, né per visitare S. Pietro o il Colosseo o i Fori, né per ammirare il Tevere e i Sette colli. Il problema, semmai, è un altro – aggiunge in un’altra missiva dello stesso anno all’amico Karl Zöllner – e riguarda il tempo e l’energia che si dovrebbero impiegare per visitarla davvero: come avrebbe poi ripetuto un grande esperto di cose romane, Silvio Negro, nel titolo di un suo fortunato libro, per vedere Roma non basta una vita. E non solo perché ci sia troppo da visitare, ma perché vedere e visitare – aggiunge Fontane – non è sufficiente: a Roma bisogna studiare e capire, andare all’intima sostanza delle cose.
Il che rappresenta anche una degna sintesi, in generale, della sua poetica.