Diario di un decennio che fugge/2
La poesia, nonostante
Gli anni Dieci (visti dall'angolo magico di Urbino) sono pieni di poesia, colori e arbusti: gli azzurri di Piero della Francesca sono riusciti a convivere con le immagini di Seamus Heaney. "E, nonostante", come dice Philippe Jaccottet
L’altro giorno segnavo sul taccuino, come promemoria: Seamus Heaney, Human Chain, 2010; Derek Walcott, White egrets, 2010; Wisława Szymborska, Wystarczy (Basta così), 2011; Yves Bonnefoy, L’heure présente, 2011; Adam Zagajewski, Dalla vita degli oggetti, 2012 (in Italia); Philippe Jaccottet, Œuvres, 2014. Eccetera. Tutti libri di poesia degli anni Dieci, una sfilza di altissima lirica che arriva sino a oggi. Sillogi che attestano l’incredibile forza di quest’arte…
Sono stato alla mostra urbinate di Raffaello al Palazzo Ducale. Credevo che i giapponesi presidiassero soltanto gli Uffizi, ma mi sbagliavo. Pare che in Giappone i treni viaggino sospesi da terra, grazie a un magnete. Comunque, alla mostra: ottimi quadri del Pinturicchio, Perugino, Barocci. Non riuscivo a capire perché mai i cari giapponesi impazzissero per Raffaello. Avevo di fronte la Madonna Colonna. Ero ancora perplesso. Poi ho fatto un passo indietro e ho capito tutto. Sono stato inondato dal torrente della luce della divina proporzione. Sono tornato a casa in lacrime, abbracciando i nipponici.
Mi capita spesso di aggirarmi per Wikipedia nella sezione botanica. Soprattutto se leggo un verso che rimanda al nome di una pianta e alle sue proprietà terapeutiche (spiritualmente, s’intende). Ciò è accaduto parecchie volte con Philippe Jaccottet e, in particolare, con il suo E, tuttavia (traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 2006). In ispecie, quando il poeta svizzero parla della carota selvatica (daucus carota). Vado a controllare e ascolto: «Fusto eretto e ramificato con foglie profondamente villose», «ombrellette», «brattee», «infiorescenza», «fittone di colore giallastro». Estasi uditiva, beatitudine dell’orecchio!
Eppure, quando giro per quella foresta incantata che è la vegetazione appena fuori dalle mura di Urbino, non riesco a trovare quei nomi: sono come polverizzati dalla mia semincoscienza da pollice verde. Sebbene siamo alle porte del 2020, in alto presidia ancora la scena il nibbio. Le nubi sono purpuree. Il vento resta in silenzio. Si ode in lontananza un “Jim da la Gegia” (trad. it.: “Andiamo da Eugenia”) che risuona per la vallata. E poi? Con stolidità adamitica, non so come si chiami quell’albero. Cerco il nome: mi è capitato tante volte in questi anni, anche con le vie (“Via Volta della morte”, “Via Balcone della vita”) e con i mitici poeti medievali. Rambertino Buvalelli. Ciolo de la Barba. Folcacchiero de’ Folcacchieri. La creatività linguistica del Medioevo è impressionante. Di questi poeti sono più interessanti i loro nomi che i loro componimenti.
Che la poesia degli anni Duemila sia – per rimanere in tema – alla frutta (come i pomi del cachi intravisto qualche giorno fa in una zona periferica), è una frase priva di senso, credo. Mi sembra di poter dire che mai come oggi la poesia riesce a raggiungere una “positività” di sorta, un’attenzione al particolare, un’umiltà (uno stame), una forza d’ascolto che prima solo raramente erano state toccate. Pensiamo al recentissimo libro di Jan Wagner pubblicato da Einaudi (traduzione di Federico Italiano): Variazioni sul barile dell’acqua piovana. Che cosa umile e paziente può essere un barile… È come se all’affacciarsi del nuovo millennio le sorti della lirica fossero improvvisamente mutate: come se Heaney, Walcott, Szymborska, Bonnefoy, Jaccottet, Muldoon, Zagajewski e tanti altri avessero avuto un cambiamento impetuoso, coinciso con i primi decenni del Duemila. Ognuno di essi era ed è aperto come il calice e la corolla del convolvolo. (Anche Enzensberger.) Aperto all’udire. Con un timpano-cavolfiore.
Pochi giorni prima di partire per le vacanze è stata data una festa al JazzClub in via Valerio. Al di là dell’immenso e secolare platano – con il «legno bruno-rosato a porosità diffusa» e le foglie «palminervie e lobate» –, alla base dell’edificio ci sono le colonne che la tradizione vuole siano le medesime della Flagellazione di Cristo. Qualcuno sfumazzava con la schiena appoggiata a una di esse. Festeggiavamo. Ignari che cinquecentosessantasei anni fa Piero s’era messo lì a dipingere. Quante volte ho visto quelle colonne… Fanno ormai parte del mio background interiore. Detto per inciso, a Urbino solitamente quando il tempo è brutto dicono, come ovunque, «c’è un cielo nero», ma quando è bello dicono «c’è l’azzurro di Piero».
Nei primi anni del nuovo secolo la poesia fiorisce rigogliosa. Di questa poesia mi sono nutrito dall’orlo dell’ultimo scorcio degli anni Novanta sino a oggi. Alcuni versi di Heaney erano semplicemente stampati nella mente: «Componi al buio/ e aspetta l’aurora boreale nel lungo tentativo».
Aurora boreale, un aneddoto su Kant. Esami di maturità: Kant è l’inflessibile commissario. «Sa dirmi – si rivolge a uno sventurato studente – qual è la causa delle aurore boreali?». L’allievo risponde di averlo studiato, senz’altro, ma ora di non riuscire proprio a ricordarlo. «Un vero peccato – bofonchiò ironico il professore di Königsberg – lei era l’unica persona al mondo a saperlo».
Scherzi a parte, forse ha proprio ragione Borges: «La vita stessa è una citazione». Le frasi di questi poeti sono disseminate, come follicoli («secchi, uniloculari»), nel mondo. Follicoli di positività, di poesia non più maudit o depressiva. Basta cercare una carota selvatica. Basta leggere cosa c’è scritto tra le linee sinuose delle infime viole, nelle capsule glabre dei convolvoli. La poesia degli anni Dieci è come un prato variopinto dell’Alta Provenza. A corollario, il titolo splendido di Jaccottet (nella foto): E, tuttavia. Nonostante tutto ecco che. Nonostante tutto. Nonostante.