Giuseppe Grattacaso
Diario di un decennio che fugge/3

Favete linguis

Un tempo, si diceva "favete linguis" per chiedere silenzio e favorire la ritualità e la concentrazione. I dieci anni appena conclusi, invece, hanno premiato chi ha parlato in continuazione. Spacciando idiozia e ignoranza per spontaneità

Per dare inizio ai riti sacrificali presso l’antica Roma il sacerdote pronunciava la formula “Favete linguis”. Chiedeva che le lingue dei presenti favorissero il rito, una formula elegante per invitare gli astanti a tacere. Le parole inopportune, dette da chi non era perfettamente addentro alle modalità rituali, avrebbero potuto infastidire gli dei, turbare la riuscita dell’evento religioso. Meglio stare zitti del tutto che rischiare di parlare a vanvera. La lingua, quando viene usata a sproposito, da chi semmai non possiede gli strumenti necessari per farne l’uso più opportuno, in circostanze specifiche può causare danni irreparabili, anche a cospetto degli dei.

L’inizio del nuovo millennio, e in particolare i dieci anni che vanno a concludersi oggi, sono stati il palcoscenico ideale sul quale esternare con il massimo dell’esibizionismo ogni tipo di castroneria. È come se il favete linguis un tempo delegato all’officiante ad inizio di cerimonia e nei periodi successivi introiettato da ciascuno come monito ad astenersi dal mettere fuori parole inutili o, peggio, dannose al punto da contaminare le giuste relazioni tra gli uomini, sia stato del tutto dimenticato o addirittura avvertito come un ostacolo alla libera espressione della propria personalità.

C’è di più. L’allargamento della platea, prodotto dalla diffusione dei social, è risultato un’istigazione a prodursi in giudizi lapidari con la certezza di essere ascoltati comunque e con l’idea che quello che si twitta, proprio perché pubblico, non possa essere che veritiero. La sentenza da bar sport crediamo sia nobilitata dal mezzo, capace di diffondere senza alcun ostacolo il verbo nella rete. Non importa quanti e chi siano gli ascoltatori, importante è sparare selfie, siano essi fotografici o linguistici, con la supponenza che qualcuno, dio o uomo che sia, debba essere interessato ad ascoltarci. Se dico qualcosa, se mi autoespongo, anche in contesti in cui farei meglio a stare zitto, allora esisto, anzi esiste la mia libertà di esprimermi, la mia presenza come essere socialmente attivo.

Dire a tutti quello che si sta pensando nell’istante esatto in cui lo si pensa, può sembrare un atto di assoluta spontaneità e dunque per questo, agli occhi dei più, una conquista. L’hanno capito i politici più furbi e meno toccati dall’idea di non confondere il benessere pubblico con la propria affermazione personale. Fingere di essere immediati e dunque spontanei è così diventata una strategia anche per chi detiene il potere. Per costoro i tweet hanno quasi completamente cancellato la comunicazione di tipo istituzionale, che prevede invece la capacità di distinguere, di smussare i toni, di evitare di essere fino in fondo se stessi, con i propri interessi e talvolta la propria arroganza. Favete linguis in questo caso sarebbe una necessità da rispettare per evitare di scivolare nel baratro di dire sempre quello che porta al proprio tornaconto. Dietro il presunto spontaneismo ci sono in effetti squadre di astuti ed abili comunicatori. L’obiettivo è apparire intellettualmente onesti, proprio in virtù del fatto che si sta parlando direttamente al cuore della gente.

Invece la spontaneità è spesso nefasta. Lo è sicuramente quando ha a che fare con la lingua, che dovrebbe imporre, per suoi caratteri costituzionali, una forma di comunicazione complessa, che ha bisogno, per essere prodotta, di tempi più lunghi di riflessione e di una ardua quanto necessaria artificiosità. Si parla in maniera sempre più veloce, basta confrontare le trasmissioni televisive degli ultimi anni con quelle di qualche decennio fa. Serve a guadagnare tempo? Sicuramente ci costringe ad essere meno lucidi e a sorvolare sui contenuti. Più velocità significa quasi sempre più formule preconfezionate, luoghi comuni, slogan.

Per usare la lingua nel tentativo di dire qualcosa di sensato e di significativo per se stessi e per gli altri, bisogna non dire subito, ma costruire, produrre un organismo articolato. Ce lo insegna la poesia, che compone la lingua in un sistema oltremodo artificioso per tentare di avvicinarsi ad una comunicazione il più possibile vera e profonda. La poesia è il contrario della spontaneità, ma dovrebbe essere capace, nei casi migliori, di aderire alla semplicità.

Nell’ultimo decennio come sempre la poesia è rimasta a guardare il mondo e a raccontarlo, a dirci che una comunicazione è sempre possibile. Basta non avere fretta, sapere che non è necessario in tutte le occasioni dire qualcosa. Sapere che esistono le parole, ma c’è anche il bianco alla fine di ogni verso.

—–

Accanto al titolo, una scena di “Not I” di Samuel Beckett

Facebooktwitterlinkedin