Trent'anni dall'Ottantanove/8
Weimar-Buchenwald
Diario di viaggio (in versi) nell'Europa del dopo-Muro, da Weimar a Buchenwald, in cerca di una spiegazione: «Volevano vedere di persona / Cogliere l’atmosfera del passaggio / Finché si era in tempo / Capite, c’era una storica necessità»
A Weimar arrivarono al tramonto
Che pareva una città abbandonata
Da tanto di quel tempo
Era il luglio del Novanta
Durante le ferie estive
Lui ricercatore a contratto, lei insegnante
O viceversa, ma questo che importa?
Una coppia fra tante
Sui trent’anni
Ancora senza figli
Di sinistra colta aggiornata
E moderatamente conformista
Se ne parlava tanto –
Della caduta del Muro
Sui giornali in tivù
All’università e ovunque
Ancora si faticava a crederci
Quasi tutti si rallegravano
Si capisce, ma qualcuno mugugnava
Ancora fra i denti
Contro Gorbaciov e il Papa polacco
Che avevano accelerato il processo
E che insomma non era poi un gran successo
Quella cazzo di riunificazione!
Lui era fra questi – ma solo qualche volta
Quando aveva la luna storta
Quando voleva fare il diverso
Per questo avevano deciso di andarci
Quell’estate – volevano vedere di persona
Cogliere l’atmosfera del passaggio
Finché si era in tempo
Capite, c’era una storica necessità
In quel viaggio nell’Est europeo
Da Budapest a Praga a Berlino
Per chiudere col famoso Muro
Da immortalare in foto
Di rito con una pietra in mano e la faccia sorridente
Un itinerario che facevano in tanti
In auto come loro o in tour organizzati
In una direzione o l’altra
Per celebrare l’evento epocale
Per vederlo finalmente quel famigerato mondo
Un momento prima che venisse smantellato
Per sempre – ripulito omologato occidentalizzato
Diceva lui col sopracciglio alzato
E un tremore del mento
Ve la siete cercata! Adesso godete!, avanti!
Soffrendo già un poco per loro!
Poveretti!
Gli intonaci neri i cornicioni cadenti sbriciolati
Ecco ciò che trovarono in quel luogo
Carico di storia – la Repubblica di Weimar
Dal 1919 al ’33, l’avvento di Hitler
Quella sequenza notturna
Spettrale e sublime del Rathaus
Solcato di nero dalla svastica nazista
In tre striscioni verticali
Finalmente dati alle fiamme
Dopo la liberazione
E quei grandi nomi
Goethe e Schiller in prima fila
Che ci avevano vissuto
E vi erano sepolti
Nella Cripta dei Principi
In due sarcofagi appaiati
Ciascuno col suo cognome
In oro sul legno lucido
Rossastro al mausoleo centrale
Ma le spoglie di Schiller in verità
Nel 2008 non furono trovate
L’esame del Dna coi familiari
Del poeta diede esito negativo
E altri ingegni vi avevano
Vissuto operato nel Sette-Ottocento
Quando Weimar era uno dei maggiori
Centri di Cultura Tedesca
Bach Herder Liszt Wagner
E pure Nietzsche
Che vi era morto
Già nel nuovo secolo
Il grande Ottenebrato
Il 25 agosto del 1900
Stroncato da una polmonite
Dopo l’ennesimo
Ictus cerebrale –
Ma tanti altri nomi
Erano legati a filo doppio
Alla città al suo nome
Agli “Anni di Weimar”
Alla “Cultura di Weimar”
Quel quindicennio nemmeno
Della “Repubblica di Weimar”
Dell’Espressionismo della Nuova Oggettività
Da Lang a Döblin, da Grosz a Otto Dix
Solo per dirne alcuni…
E quell’orrore lì a un tiro di schioppo
C’era anche lui nel novero
Dei motivi di interesse
A Weimar nell’estate del Novanta
Quel nome impronunciabile
Macabro simbolo del Male Assoluto –
Che poi letteralmente significava
Solo bosco di faggi cioè faggeta
Quel campo di concentramento e di sterminio
Nazista – dico – fra i più feroci e inumani
Dov’erano morte cinquantaseimila persone
Dal ‘38 al ‘45 – in quei modi atroci
Documentati dai libri dalle foto
Innumerevoli al museo del campo
Assieme ai cumuli di scarpe e di occhiali
E di denti degli internati morti
Il famoso blocco 50 delle cavie umane
L’eliminazioni dei disabili
Gli esperimenti medici
E quella “cagna” sadica e assassina
La moglie del Comandante del campo,
Ilse koch detta anche “la strega” e “la iena”
Che faceva cose inenarrabili
Roba che accapponava la pelle
E i cadaveri ammassati sullo spiazzo
Nell’aprile del 45 quando gli alleati
Forzarono i cancelli e liberarono il campo
Altri ammucchiati su un camion
Quelle facce rasate e smagrite
Che sporgevano pallide
Dai legni delle brande
Dentro i cubicoli delle baracche
Anche quella di Elie Wiesel ragazzo
Con un lampo di follia negli occhi
Quella folla di bambini cenciosi
Più di novecento, novecentoquattro
Per l’esattezza, quasi tutti ebrei
Quasi tutti orfani
Miracolosamente salvi
Risparmiati al massacro sistematico
All’annientamento
Ammassati fra le baracche
In un gregge ordinato
E scortati fuori del campo
Dai soldati americani
E il tutto era successo
In quella stessa dolce collina
ricoperta di faggi dove Goethe
un paio di secoli prima
Andava a ispirarsi e a meditare
Sulla Natura…
Rari uomini in giro negozietti chiusi
Senza saracinesche poca merce nelle vetrine opache
E un po’ di vento caldo
Che portava odore di bitume
Questo trovarono a Weimar
La statua di Goethe e Schiller nel Theaterplatz
Spettrale e sporca come il resto
Tutto era avvolto da una fuliggine
Grigia sui palazzi come pure avrebbero trovato
Nella magnifica Dresda in Sassonia
E a Bratislava e a Praga e a Berlino est
Era così ovunque
Quell’incuria urbana quello squallore
Ricopriva tutto l’est europeo
Senza eccezione
C’erano i film di Wajda nella memoria
Quelli più freschi di Kieslovski
C’erano i romanzi di Kundera
C’erano tanti esuli dissidenti
Lo si sapeva ma faceva tristezza
Quando te lo trovavi di fronte
Qualcosa di grave e opprimente
Pareva caderti addosso
Mangiarono wurstel e patate
In una taverna fumosa piena di ubriachi
Serviti da una giovinetta con il grembiule a fiori
E adesso si potevano pure ritirare
In quell’albergo vicino alla stazione
Che gli avevano assegnato al bureau centrale
Davanti a un parco giochi terrazzato
E a qualche sparuto alberello di ciliegio
Ma avevano in testa quell’orrore
E senza dirsi nulla s’avviarono
In auto su per la collina boscosa dell’Ettersberg
Sempre più scura
Mano a mano che salivano i tornanti
Verso quel posto maledetto
Che certo di notte non si poteva visitare
E già gli dava il batticuore
Solo per averlo letto su un cartello stradale
Per tutte le atrocità che si sapevano
Si è detto – gli esperimenti medici gli abusi
Sui prigionieri i tatuaggi le iniezioni mortali
La pelle umana conciata per i libri
E i paralumi e gli altri manufatti
Quella roba insomma che attirava
I turisti come la merda per le mosche
E giunti a destinazione nemmeno
Si vedeva il famigerato cancello di ingresso
Con la scritta Jedem das Seine (A ciascuno il suo)
Scolpita con cinico gusto nel ferro battuto
In modo che si leggesse dall’interno del campo
E il monumento ai caduti a lato dello spiazzo
Non aveva niente di particolare
Una lastra di granito lunga forse tre metri
Incisa di quei nomi disgraziati e di un disegno strano
E lei disse andiamo non c’è niente da vedere
Non è bello quello che stiamo facendo
Ci torniamo domani
E neppure poterono fermarsi un momento
Per un uno sguardo una preghiera
Tant’erano improvvisamente
Pieni di vergogna e di colpa e di paura
Per quella curiosità morbosa
Che li aveva spinti lì di notte senza ragione
Per l’osceno gusto dell’orrore
A Buchenwald al campo di sterminio
Nel cuore straziato del Novecento
Neanche fosse un parco di divertimento