Visto al Teatro Bellini di Napoli
Ruccello all’Opera
Torna in scena "Le cinque rose di Jennifer" di Annibale Ruccello con Daniele Russo diretto dal fratello Gabriele. Il dramma della diversità perde la dimensione piccolo borghese originale per approdare a una magniloquenza quasi operistica
La prima volta che conobbi Jennifer fu nel lontano 1980 credo, al ‘Na Babele Theatre, spazio oramai scomparso, situato nei Quartieri Spagnoli, penso quello fosse un pre-debutto, prima che lo spettacolo – scritto, diretto e interpretato da un giovanissimo Annibale Ruccello – approdasse alla Biennale di Venezia, allora diretta da Maurizio Scaparro. Fu un’occasione importante per Jennifer per farsi conoscere, stimare, amare da tutto il teatro nazionale e non, e difatti l’abbiamo amata in tanti. E da allora ne ha fatta di strada, tanta, tantissimi allestimenti passando per Enrico Lamanna, Arturo Ciriillo, Pierpaolo Sepe, Geppy Gleijeses, per non parlare di infinite edizioni minori, a beneficio degli eredi, fino a giungere ai giorni nostri alla messinscena dei fratelli Russo, Gabriele e Daniele, rispettivamente regista e interprete, felici promotori di quella bella Factory, che è divenuto il Teatro Bellini di Napoli, dove lo spettacolo è andato in scena il 25 ottobre (ci rimarrà fino al 10 novembre) con un incredibile successo di pubblico.
A ben scrutare nella memoria si concretizza un altro bel ricordo, un’edizione cinematografica (1989) ad opera di Tomaso Sherman con una Jennifer ereditata dal buon Francesco Silvestri, storico interprete di Anna, poiché Annibale Ruccello purtroppo ci aveva già lasciati in quel fatale incidente autostradale del 1986.
Rammentavo di conseguenza quella storica edizione, facendo un raffronto, e di cui poco si trova in rete, e dunque viva solo nella memoria, nel ricordo di quei pochi fortunati spettatori che assistettero a quel felice battesimo. Ruccello regista, aveva relegato la sua eroina in un contenitore asettico e asfittico, tre pareti rudimentali costruite con delle cantinelle rivestite da incerata trasparente, e in questo spazio angusto. Jennifer vestiva abitini recuperati in mercatini rionali. L’autore ci trasponeva in linguaggio meta-teatrale la problematica avventura di uomo che si traveste da donna, che si sente donna, di un’anima che non si riconosce nei propri panni e che la società non distingue come individuo a sé, ma che ha bisogno, per mantenere salda la sicurezza in città, di relegare in un quartiere/ghetto, Jennifer assieme a tutti gli altri suoi simili. In questo limbo – apparentemente aureo – si aggira un killer che ad uno ad uno, assassina i suoi abitanti, firmandosi con cinque rose rosse, dal lungo gambo, che lascia ai piedi delle sue vittime. In concreto, non esisterebbe nessun killer, le vittime sono carnefici di se stessi, ma chi può dirlo? Paura e ossessione corrono sullo stesso filo della sopravvivenza. Jennifer, Anna e tutte le altre ragazze, spiriti leggeri, solitari, stanziati in quello spazio senza identità, sono vittime dell’emarginazione, del disprezzo, dell’intolleranza altrui. Ognuna di esse ha bisogno di costruirsi un mondo parallelo, per poter affermare, degnamente il proprio sacrosanto diritto ad una regolare esistenza umana. Jennifer lo fa con un amante immaginario, misterioso, l’affascinante quanto evasivo Franco. Fra una telefonata e l’altra, una dedica della canzone preferita alla radio libera locale, in una quotidianità alienante, trascorre un’esistenza senza senso.
L’edizione odierna de Le cinque rose di Jennifer con la regia di Gabriele Russo, senza tradire il dettato dell’autore perde la dimensione cameristica per acquisirne una quasi operistica, manca solo l’orchestra nel boccascena, le pareti di quella squallida monocamera sono deflagrate in uno spazio immenso, un palcoscenico spoglio, pudico di mostrare tutta quella nudità, quello del Teatro Bellini, elegantissimo, così rivelato e sverginato. Gli anni 80, anni in cui la pièce si svolge, sono un ricordo lontano, pochi elementi a citare quel gusto vintage. Indossando abiti sfavillanti e tacchi mozzafiato, la Jennifer di Daniele Russo è una grande interprete, con lui il travestito si è imborghesito, è divenuto vittima, figlio di un consumismo ossessivo, di uno shopping impulsivo, e qui l’inventiva della costumista, Chiara Aversano, va ben oltre la semplice immaginazione, con volant e sexy-trasparenze. La presenza in scena dell’attore è un grande coupe de theatre, un maschio alfa che mette a confronto la sua mascolinità, la discute, la frantuma a favore di una flessibilità, una morbidezza infinitamente straziante. Compagno egregio e complementare è anche l’ottimo Sergio Del Prete, una prestante e atletica Anna. Un maquillage impeccabile che si sfalda inesorabilmente con il trascorrere dell’azione, lasciandoci in eredità, a noi spettatori, la faccia impietrita dell’interprete, che non può fare altro che restituire una storia come tante altre, ma che è ancora di dolorosa, tragica quotidianità.
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La foto accanto al titolo è di Mario Spada