Trent'anni dall'Ottantanove/9
Oltre la Cortina
L'Ottantanove cominciò a Hegyeshalom, al confine tra Austria e Ungheria, dove un trattore con lame di acciaio tranciò di netto i cavi di metallo che dividevano l'Est dall'Ovest. Ecco la prima parte della storia di quei giorni
Il cronista sfoglia i vecchi taccuini. Sono passati trenta anni da quei giorni che dovevano porre fine alla storia. Le pagine sono ingiallite, la memoria ancora viva. I giorni della danza attorno al muro che crolla sono parte della sua vita, e hanno disegnato la vita di tutti noi. Così il cronista si interroga: da dove cominciare? I vecchi appunti rispondono: l’inverno che tutto cambiò fu preceduto da un’estate di trepide speranze. E questa è la cronaca.
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I Romani fondarono l’odierna Sopron e la chiamarono Scarbantia. È bella Sopron – l’antica città romana e medievale – nel giugno dell’89, tra giornate di sole, nuvole vaganti nel cielo acceso e improvvisi scrosci di pioggia. Le strade sono affollate, le piccole piazze piene di gente e di strepito. Colonne di auto in arrivo, comitive accampate. I turisti vengono dalla Germania, e sembra che tutti i tedeschi dell’Est abbiano scelto questa estate per una visita in Ungheria.
Ma la scampagnata nel Paese “fratello” è più una fuga che una vacanza. Sopron dista appena 70 chilometri dalla frontiera con l’Austria e a 70 chilometri dall’Austria si trovano le altre cittadine ungheresi cresciute sul filo che la storia ha tracciato tra Est ed Ovest: Hegyeshalom, Koeszeg, Oshzeg, Szentgotthard.
Qui, lungo i 345 chilometri della frontiera, la cortina di ferro non esiste più: a maggio, proprio a Hegyeshalom, un trattore con lame di acciaio ha tranciato di netto i cavi di metallo, mentre altri bulldozer hanno cominciato a sradicare i paletti di cemento della barriera che si perde nei campi della sterminata pianura ungherese. Un evento storico, consumato di fronte alle telecamere di tutta Europa: l’inizio della caduta dell’Est, di cui pochi tuttavia hanno ancora lucida comprensione.
Sono trascorsi due mesi e oggi, sotto i nostri occhi, si compie quello che doveva fatalmente accadere. Nel varco della geografia e della storia comincia a passare una dispersa umanità in fuga: sono coppie giovani, gruppi di amici, famiglie intere che hanno chiuso casa e sono partite per le vacanze, sono le vecchie Trabant che affondano nel fango in cui si perdono le strade alla periferia di Sopron, e poi ancora più in là, fino a dove una incerta burocrazia permette di addentrarsi.
Nel taccuino del cronista ritrovo nomi e frammenti di conversazione. Kurt è qui con la ragazza, la Wartburg azzurra, una piccola tenda canadese. «Cerco di passare, del resto la frontiera non esiste più. Cosa faremo dopo non lo so, ma siamo giovani, qualcosa troveremo: un lavoro, qualcosa da fare». Bruno ha con sé tutta la famiglia: «Io e mia moglie abbiamo parenti che ci aspettano di là, voglio dire a Ovest. E il momento di passare era proprio questo: i bambini sono piccoli, cresceranno in un mondo diverso, e della vecchia vita ricorderanno poco». Angelika è arrivata qui con gli amici, vengono da Lipsia e sembrano un gruppo di tifosi all’ingresso dello stadio. Angelika non riesce a parlare: piange un po’, poi si asciuga gli occhi e raggiunge gli altri.
I giornalisti tedeschi sono i più informati. Georg racconta che nell’ambasciata di Bonn a Praga sono accampati migliaia di profughi. Difficile, quasi impossibile verificare. Qui, invece, basta osservare con i nostri occhi: decine di auto sono abbandonate alla periferia, poi il passaggio a piedi verso la frontiera, la terra di nessuno, il confine tra due mondi. Dice il contadino Imre, ridendo: «Certo che passano. Una mattina li trovo nei miei campi, non parliamo la stessa lingua, ci intendiamo a gesti. Dico che devono andare avanti, non so se poi li fanno tornare indietro. C’è una gran confusione, da quando hanno smontato la barriera».
La Cortina di ferro, appunto. C’è un vento di liberazione che soffia da Est e che tra pochi mesi investirà a Berlino l’ultima casamatta del comunismo realizzato. In questa estate dell’89 arriva da Mosca – da dove meno te lo aspetti – il vento della Glasnost e della Perestroika: trasparenza e riforma, gli slogan di Mikail Gorbaciov. A maggio, lo stesso ministro degli esteri magiaro difende la decisione di smantellare la cortina di ferro con queste parole: «Questo è il nostro processo di democratizzazione, questa è la nostra glasnost».
Due anni dopo – è l’estate del 1991 – il cronista si affaccia dal balcone del suo albergo di Makhachkalà e nella notte polverosa della provincia sovietica del Daghestan legge, scritta in gigantesche lettere di fuoco sull’ edificio di fronte, la parola d’ordine “Perestroika”. È inizio della fine per il mondo comunista, che crollerà poche settimane dopo con la resa di Mosca al capitalismo. «Ben scavato, vecchia talpa!», direbbe Karl Marx, l’uomo da cui tutto ebbe inizio.
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