Gaia Sanguinetti
In margine al film di Todd Phillips

Il caso Joker

Disturbante, violento, sgradevole, ritratto di un disagio diffuso: Joker è uno di quei film a proposito dei quali ognuno vuole dire la sua. Perché è quasi una favola che usa la storia del cinema (e dei fumetti) per creare empatia con il pubblico

Più che un film, Joker è diventato un caso. Un’esperienza. Disturbante, irresponsabile o perfino sgradevole per alcuni, straordinaria e convincente sotto ogni aspetto per altri. Questo film, ancora prima di essere concepito, è stato una sfida: partendo da un personaggio di un fumetto, con una storia indefinita alle spalle, analizza nel profondo le debolezze umane e il disagio che emerge in contesti di emarginazione. Da qui gli elogi e le critiche: chi si aspettava un legame più consistente con i fumetti o la trilogia di Nolan, chi ha brutalmente contestato l’eccessivo sfoggio di violenza, chi ha lodato l’audacia irriverente di un cine-comic sui generis.

La visione è indubbiamente emozionante: il regista Todd Phillips ci pone di fronte a una determinata situazione, ma è la nostra personale reazione che genera il mood effettivo del film. Joker è una pellicola che disturba, volutamente, e lo fa così bene che appare, a tratti, una mera e gratuita estetizzazione della violenza. Tuttavia, essa trova un’opportuna giustificazione nel contesto e nella dinamica degli eventi: l’ambiente in cui si sviluppa la vicenda, cioè la città di Gotham, descritta già nei fumetti come una città marcia, che ribolle della feccia umana e dove il crimine è all’ordine del giorno, ma anche i soprusi psicologici e sociali subiti dal protagonista, che lo degradano e lo portano a sprofondare non solo nella sua pazzia, ma anche verso il lato più disumano di sé.

La singolarità di questo inusuale cine-comic è sottolineata dall’evidenza che il film è più intimamente legato al cinema della New Hollywood di quanto non lo sia all’universo DC. I riferimenti sono palesi, esagerati, ma anche incredibilmente romantici: si tratta di un film che ama profondamente la storia del (bel) cinema e la elogia in modo plateale, in particolare tramite il parallelismo con Taxi Driver  – la New York-Gotham sudicia e affogata dai rifiuti, il fragile protagonista che scende i gradini della propria follia – arrivando anche a riproporre alcune scene, come quella in cui Arthur fa le prove con la pistola. Insomma, qui non c’è nulla di sottile, di nascosto fra le righe: l’amore per il cinema è evidente, a volte goffo e impacciato, ma, del resto, perfettamente in linea con il personaggio.

Anche per questo motivo, Joker non è, in senso positivo, un film particolarmente rivoluzionario sul piano stilistico: non vi è nulla di nuovo nella regia o nella sceneggiatura, se non un sapiente uso della camera e delle sequenze di battute, anch’esso derivato dal cinema degli anni Settanta. Le ampie inquadrature, in cui il protagonista si fonde e si confonde con il lurido e degradato paesaggio underground, si alternano a inquadrature molto strette, quasi tagliate, che marcano a uomo le espressioni e i sentimenti di Arthur.

L’intera narrazione, infatti, è costruita attorno a lui, in modo quasi narcisistico: tutto si basa su un pendolo fra realtà e follia, le cui oscillazioni sono determinate dalla risata di Arthur. Una risata isterica, incontrollata, dovuta alla sua malattia mentale e attraverso la quale manifesta allo spettatore i momenti di totale lucidità. Durante lo sviluppo del film assistiamo, però, anche a un secondo tipo di risata – più umana, più empatica, usata da Arthur quando si sente a proprio agio e che rivela i momenti “di confine”, un ponte fra la realtà oggettiva e quello che egli vorrebbe fare o essere – nonché alla totale scomparsa di quest’ultima: il protagonista diventa inaspettatamente capace di relazionarsi ed è qui che inizia la sua inesorabile discesa verso la pazzia.

Letto in questo senso, il film si divide in tre parti: la prima metà racconta i fatti esattamente come sono accaduti – Arthur che viene picchiato, perde il lavoro e, disperato, uccide i ragazzi in metropolitana; a partire dall’omicidio, scene reali si alternano a scene create dalla mente del personaggio, il quale inizia a perdere progressivamente il contatto con la realtà e a trascinare sé stesso, nonché lo spettatore, in un confortevole stato di follia, finché, verso la fine del film, Arthur crea (quasi) completamente la sua realtà.

Cosa è successo realmente e cosa, invece, è accaduto solo nella sua mente? Questo non è dato sapere (tranne alcune rivelazioni che il regista sceglie di condividere, come la relazione inventata con la vicina di casa), ma è proprio qui che sta l’inghippo: tutto si basa su uno scherzo, it’s a joke, perciò è compito di noi spettatori stabilire il limite tra ciò che è reale e ciò che non lo è. E, tuttavia, sarebbe un inutile sforzo: reale o no, se è successo nella mente del Joker allora questa è la sua verità, questa è la verità che lo spettatore è chiamato ad accettare. Un piccolo (ma fondamentale) rimando ai fumetti, dove il personaggio di Joker afferma che “se proprio deve avere un passato, preferisce averne di diversi”, ci suggerisce che questa storia ha infinite combinazioni possibili e, incredibilmente, sono tutte vere.

L’unico fatto inopinabile è che Arthur Fleck è un emarginato, una persona malata a cui la società non ha dato assistenza e che finisce col diventare un assassino assunto a simbolo di rivolta popolare. Alla fine i Joker si sono moltiplicati, in tantissimi indossano la maschera del pagliaccio che ha osato ribellarsi ai soprusi della classe più ricca: quello che inizialmente nasce come disagio interiore di una singola persona si distorce – come in un telefono senza fili – e si trasforma in un falso populismo che marcia sotto il vessillo della violenza.

 

E allora il dubbio si insinua nuovamente: Arthur Fleck è davvero il Joker di Batman? La parentesi temporale non torna (nel film Bruce Wayne sembra avere al massimo 12 o 13 anni, mentre Arthur un’età compresa fra i 35 e i 40 anni), ma se Arthur è solo un povero disgraziato, che per puro caso è diventato il simbolo di una rivolta e ha creato il mito di Joker, allora il “vero” Joker, l’antagonista per antonomasia dell’uomo-pipistrello, è una delle maschere tra la folla?

La risposta è che non ha reale importanza la sua vera identità: nel momento in cui nasce un Joker è la nostra società ad aver perso contro l’indifferenza e il disprezzo. Nella scena finale Arthur si trova di fronte all’ennesima psicoterapeuta, la quale (esattamente come la precedente) è lì solo per lavoro e non perché le interessi davvero sapere come sta il paziente che ha di fronte. Questo Arthur l’ha capito e, di conseguenza, ha rinunciato a credere di potersi salvare: con le scarpe sporche di sangue, scivola, ballando, verso la follia assoluta, quella che per lui è finalmente la luce.

E, come se non bastasse, ecco comparire i titoli di coda (troppo spesso trascurati da chi fa cinema e ripresi da Philips in omaggio, ancora una volta, alla New Hollywood): giallissimi, con queste E ricciolute che ricordano tanto i cartoni animati degli anni Sessanta, quasi come se qualcuno volesse dirci «Tranquilli, quello che avete visto era solo uno scherzo, una favoletta».

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