Raoul Precht
Periscopio (globale)

Ricordare D’Arrigo

A cent'anni dalla nascita bisogna assolutamente estirpare dall'oblio letterario Stefano D'Arrigo, scrittore complesso e impegnativo. L'autore (non abbastanza celebrato) un libro immenso e irripetibile come “Horcynus Orca”

Tre mesi fa, alla scomparsa di Andrea Camilleri, mi si è riaffacciata alla mente quasi di straforo l’immagine di un altro scrittore, anche lui siciliano, ma molto meno celebrato, e che anzi rischia quasi l’oblio. Il centenario della nascita, avvenuta il 15 ottobre del 1919, ci permetterà forse di scongiurare la funesta eventualità e di proporre questo scrittore nuovamente all’attenzione del pubblico e dei critici, mai troppo generosi nei suoi confronti. Detto en passant, mentre pensavo appunto a quest’altro scrittore mi chiedevo anche perché i lettori più critici della mia generazione abbiano nutrito e nutrano, nei confronti di Camilleri, tante perplessità. Perplessità che, nell’incensamento collettivo dei coccodrilli, in pochi confessano. Intendiamoci: di Camilleri abbiamo apprezzato negli anni molte doti, la capacità narrativa e l’eleganza saggistica, i dialoghi scoppiettanti, l’impasto linguistico, l’abilità – da bravo sceneggiatore – di raccontare una storia dall’inizio alla fine, e proprio per questo gli si perdonano le poche manchevolezze, la banalità di taluni scioglimenti, certo “inseguimento” dell’attualità, le pose a volte istrioniche. Personalmente ho passato dei bei momenti, da lettore rilassato, grazie ai suoi romanzi, e gliene sono grato; anzi, confesso d’aver apprezzato perfino qualche puntata del Montalbano televisivo. Ma riflettendo sulla parabola così diversa dell’altro scrittore, mi sono detto che Camilleri non avrebbe mai potuto convincere pienamente una generazione che si è nutrita, anche dal punto di vista linguistico, di un libro immenso e irripetibile come Horcynus Orca.

Sto parlando, si sarà capito, di Stefano D’Arrigo. Siciliano anche lui, della provincia di Messina (Alì Terme, per l’esattezza), D’Arrigo è stato forse l’esempio più lampante, nel Novecento italiano, di quel che si suol definire auctor unius libri, nel senso che per gran parte della vita si è dedicato a progettare, scrivere e limare in modo maniacale le 1265 pagine del suo capolavoro e (quasi) unico contributo alle patrie lettere. Quasi unico, anzi: mi si obietterà che è anche autore di un libro di poesie, peraltro pregevolissimo, dal titolo Codice siciliano, e che non bisogna soprattutto dimenticare il romanzo Cima delle nobildonne, apparso nel 1985, opera – come scriveva Geno Pampaloni nella bandella del libro – di un “D’Arrigo altro e medesimo”. Non sono mancate interpretazioni che hanno messo in luce elementi di continuità tra le due opere: il secondo romanzo proseguirebbe il discorso del capolavoro pubblicato dieci anni prima trasferendolo idealmente nell’Egitto del secondo millennio avanti Cristo e del faraone donna Hatshepsut, chiamata appunto dai sudditi “cima delle nobildonne”, in quanto, se nell’orca del romanzo principale la natura maligna e fetida dà vita alla “cicirella”, o novellame, con una promessa di rigenerazione, nella placenta di Cima delle nobildonne, cui si vorrebbe dedicare un museo, appaiono cellule incontrollabili che sono al contrario presagio di morte. Sarà pur vero, ma nel suo italiano limpido, depurato e qua e là persino “scientifico” il secondo libro ci appare oggi molto più debole e convenzionale. Sembra d’altra parte che lo stesso D’Arrigo si sia lasciato sfuggire più di un dubbio sulla possibilità di scrivere, dopo un libro come Horcynus Orca, qualcosa di altrettanto impegnativo e innovativo.

Marinaio semplice della nostra flotta, disperso con i suoi commilitoni dopo il tracollo dell’8 settembre del 1943, il protagonista ‘Ndrja Cambria cerca di tornare da Napoli, attraverso la Calabria, nella sua Sicilia natale, attraversando un Meridione devastato e incontrando, in questo suo spostamento o discesa agli inferi, una schiera di sopravvissuti che sembrano usciti dall’Inferno o almeno dal Purgatorio dantesco, essendo stati tutti colpiti nel profondo dalle tragedie personali e collettive che la guerra ha provocato. Al tempo stesso, ‘Ndrja compie un viaggio in se stesso, nei propri turbamenti, alla ricerca di una rinnovata conoscenza delle cose, al di là della forzata opacità prodotta dalla guerra e dall’occupazione, che si salderà con una morte prematura e fin troppo prevedibile, coronamento in negativo di un nostos mancato. Tre endecasillabi di Codice siciliano sembrano già prefigurare questa ricerca e iscriverla nel solco della grande poesia: “…desidero tornare spalla a spalla / coi miei amici marinai che vanno / sempre più dentro nei versi, nel mare.” Horcynus Orca è una specie di Odissea senza dei né condottieri (anche se ‘Ndrja è seguito da presso da alcuni compagni di sventura), dove ciascuno è abbandonato a se stesso e alle proprie residue forze; odissea di uomini in balia di forze estranee e soverchianti, in cui anche le figure femminili corrispondono a modelli alti – da Ciccina Circé, “femminota”, amante, sirena e prostituta, che ricorda già nel nome la maga Circe, a Marosa, la fidanzata che come Penelope aspetta il protagonista – ma sono rappresentate a un livello ironico, quando non comico. Se la satira nei confronti del testé decaduto regime fascista e del suo duce è feroce e inevitabile, decretata semplicemente dall’andamento delle cose, nella chiacchiera incessante e nelle infinite digressioni che sembrano costituire il libro D’Arrigo inserisce senza soluzione di continuità un sentimento di mestizia e disperazione più universale. Il mondo è ora dominato dalle fere, i delfini che distruggono le reti da pesca, da un mare che anziché salvare con i prodotti della pesca, appunto, inghiotte e non perdona, da figure infernali, da quei Proci che finiranno per vincere sempre, insomma dal Male in tutte le sue personificazioni. Il ritorno dell’orca, parallelo a quello del protagonista, è un presagio di morte e di ulteriore devastazione, anche se non è un caso che l’uccisione quasi casuale e antieroica di ‘Ndrja non sarà opera dell’orca, ma del “fuoco amico” della sentinella di una portaerei inglese, che rappresenta quindi i liberatori dell’Italia dal giogo nazifascista, ma non certo dai suoi propri vizi. Un’Odissea che finisce male, insomma, con un Ulisse (ignorante e ingenuo e magari prudente, certo non scaltro come l’altro) che non salva né i propri compagni né se stesso, che non riabbraccia Penelope, che non vendica nessuno. In questo nuovo mondo non si pesca più dalle barche, ormai tutte affondate, ma facendo scoppiare la dinamite e le granate in mare senza preoccuparsi delle conseguenze; l’ordine preesistente e tutti i valori sono andati persi e andranno faticosamente ricostruiti, ma solo ad opera delle generazioni successive, e senza alcuna garanzia che ciò riesca.

Lavorio pazzo e disperatissimo, quello sul libro, svolto per due decenni fra l’appartamento romano e un rifugio sugli altipiani di Arcinazzo, in una situazione di semireclusione. Horcynus Orca sottrae infatti a D’Arrigo, o li arricchisce con la sua indiscreta presenza, quasi vent’anni di vita, tra gli appunti iniziali dell’agosto del 1956 (con un primo titolo poi scartato, La testa del delfino) e la pubblicazione in volume nel 1975, passando attraverso l’uscita nel 1960 di un estratto, con il titolo I giorni della fera, sul Menabò diretto da Vittorini e Calvino, e una versione provvisoria del libro intero, I fatti della fera, che avrebbe dovuto essere pubblicata in volume nel 1961. Non lo sarà. D’Arrigo si mise a correggere le bozze e il lavoro gli portò via “appena” quattordici anni, trascorsi a sviluppare e ampliare senza più alcun freno – e al tempo stesso con una grande capacità di calibrare ed equilibrare – struttura e sintassi, dilatando il romanzo a dismisura con lunghi inserti e divagazioni che tra tanti possibili modelli ricordano anche le Mille e una notte, generosamente sostenuto da un contributo economico mensile incautamente offerto (grazie all’intercessione di Vittorio Sereni, suo direttore editoriale) da un Arnoldo Mondadori che certo non si aspettava una gestazione di tale durata. Per dare solo un’idea dell’inesauribile rovello dello scrittore, alla storia letteraria è passata l’ultimissima modifica che l’incontentabile D’Arrigo impose, pretendendo che tutte le occorrenze del termine “prendere” e derivati fossero sostituite con gli equivalenti di “pigliare”, tanto più popolaresco e colloquiale. Sembra un dettaglio, e invece, unito ad altre scelte dello stesso tipo, ha profondamente modificato colore e musica del testo. Non tutti sanno, tuttavia, che il lavoro di rifinitura non si arresterà nemmeno con la pubblicazione “definitiva” ma durerà fino alla morte di D’Arrigo, nel maggio del 1992, tanto che l’ultima edizione di Horcynus Orca del 2003 comporta ancora delle modifiche da lui apportate in extremis.

L’autore di Horcynus Orca dialoga con i massimi esponenti della letteratura europea del Novecento, da Proust a Musil, da Mann a Joyce, da Melville a Kafka, e dialoga, diremmo, ad armi pari, su un piano di eguaglianza, il che non ha nulla a che vedere, però, con pretesi prestiti o assonanze. Anche il paragone con Joyce, che è stato spesso fatto, sembra alla fine poco calzante, perché se i due sono apparentati per le dimensioni dei rispettivi libri e per le loro ambizioni, oltre che per aver reinterpretato (in modo peraltro diversissimo) il mito di Ulisse, l’operazione che D’Arrigo compie sul linguaggio è del tutto personale e idiosincratica: Joyce accumula e imperversa su ogni registro di una lingua già data, fino a crearne una autonoma, mentre D’Arrigo modella e plasma – come giustamente rilevato da un critico d’eccezione quale è stato Primo Levi – un impasto linguistico inimitabile, mobile e soprattutto sempre adatto al suo scopo. Recuperando le origini siciliane e financo calabresi di vocaboli e modi di dire, modificandoli e piegandoli alle proprie esigenze, lo scrittore costituisce anche una vera e propria lingua salvata, che tra l’altro deve rispecchiare e competere con la grandiosità del paesaggio in cui è immersa.

È la risposta implicita alle semplificazioni, nel libro, di un personaggio come il veneto Monanin, per il quale i siciliani, poco meno che selvaggi, non dispongono di una lingua. Ma al tempo stesso l’operazione di D’Arrigo è quanto di più distante possibile da quella che potrebbe fare un autore dialettale. Ne è testimonianza la polemica con Vittorini, che all’estratto pubblicato sul Menabò volle accludere a tutti i costi un glossario, contro cui D’Arrigo si batté strenuamente perché riteneva di scrivere non in un dialetto, ma pienamente in italiano, sia pure con tutte le libertà espressive alle quali uno scrittore non dovrebbe mai rinunciare. E questo fin dal titolo, che è una variante personalissima del termine scientifico (Orcinus Orca), cui D’Arrigo aggiunge un’acca per sottolineare la presenza dell’elemento acquatico, modificando la i in ipsilon per rimarcarne l’aspetto mitico. Levi sottolineava inoltre un altro aspetto che distingue D’Arrigo da Joyce, ed è la vena comica e popolare di buona parte della sua prosa, che si contrappone implicitamente al passo da poema epico e un po’ lo irride.

Non mi soffermerò qui troppo sulla ricezione del libro, che meriterebbe un microsaggio a parte e potrebbe costituire una pietra di paragone del discorso critico negli anni Settanta. Diciamo solo che, per la sua mole e per le sue ambizioni, Horcynus Orca era perturbante e non avrebbe potuto evitare di suscitare invidie e gelosie – troppo esuberante, troppo polifonico, troppo maturo, troppo originale, troppo di tutto – cui avrà certamente contribuito anche il mito tessuto da Mondadori, a fini anche promozionali, di uno scrittore intento per decenni a scrivere e rivedere il capolavoro assoluto, destinato a mettere in ombra il lavoro di tutti gli altri. Che così non fosse – e basterebbe a dimostrarlo l’uscita negli stessi anni di Corporale di Paolo Volponi, della Storia di Elsa Morante o del Quinto evangelio di Mario Pomilio, solo per dare qualche altro titolo di rilievo assoluto -, o il fatto che il romanzo abbia finito per non riscuotere quel successo di pubblico che l’editore forse si aspettava e di certo auspicava, sono certo elementi a discarico, ma che non hanno fatto guadagnare a D’Arrigo troppe simpatie. Sta di fatto comunque, a voler essere giusti, che molti scrittori e critici restarono affascinati dal romanzo e che George Steiner lo definì un capolavoro assoluto, contribuendo ad accrescere la curiosità a livello mondiale. Benché poi le traduzioni di un romanzo così corposo e quasi bulimico si siano arenate fra Scilla e Cariddi e a tutt’oggi l’unica disponibile sia quella dal tedesco dell’infaticabile Moshe Kahn, uscita però solo nel 2015, l’opera, così come non è illeggibile (con buona pace di qualche critico dell’epoca – ma costoro avranno almeno tentato di leggerla?), ancor meno è intraducibile. Certo, è però necessario, come ha dimostrato proprio Kahn, affrontarla con le risorse della fantasia e con un armamentario ermeneutico di ampiezza non comune.

A posteriori, è quasi commovente che Horcynus Orca sia uscito almeno in tedesco, se si considera di quanto D’Arrigo sia stato, soprattutto in gioventù, debitore della cultura tedesca, e in particolare del suo Hölderlin, il “poeta ingrato” su cui si laureò nel 1942 e alla cui influenza, soprattutto per quanto riguarda la forza e le potenzialità della parola poetica (e romanzesca), non si sottrasse mai. Così come non si sottrasse, malgrado il passare degli anni e l’affastellarsi delle letture, a quella di Gogol’, altro autore studiato e amato, e in particolare delle “romane” Anime morte, romanzo intorno al quale il giovane D’Arrigo per alcuni anni lavora e suda, immaginando e in parte realizzando prima una sceneggiatura cinematografica e poi un abbozzo di romanzo, mai pubblicato. Ma ricercare i modelli e le influenze (personalmente aggiungerei almeno le Metamorfosi) dello schivo D’Arrigo, che pochissimo si è espresso sulle sue predilezioni, è un compito che andrà lasciato a saggi e tesi di laurea; a me basta qui sottolineare, in conclusione, come D’Arrigo non sia mai stato estraneo né avulso da nulla, ma si situi semmai nell’alveo della grande letteratura europea e mondiale, di cui Horcynus Orca rappresenta un esempio smagliante.

 

 

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