Un documentario da vedere
Orrori di guerra
In "scherza con i fanti", Gianfranco Pannone e Ambrogio Sparagna partono da quattro diari di guerra (dal 15/18 al Kosovo) per raccontare in che modo i conflitti riescano a disumanizzare gli individui. Fino a far dimenticare loro il concetto stesso di “vita”
Nella mia famiglia la guerra si taceva. Erano le donne a raccontare quel poco che sapevano. Mio nonno era una guardia del re e accompagnò il principe di Napoli nella sua fuga a Torino. Dovette tornare a casa da solo, a piedi, scansando i morti per strada e fu aiutato da una donna e due tessere di partito. Mio padre invece partì volontario per la Jugoslavia per aiutare la famiglia. Entrambi eludevano la mia terribile e muta domanda: «Avete mai ucciso qualcuno?». La guerra è guerra, la patria è patria e la domanda contiene un’accusa.
Scherza con i fanti, il documentario di Gianfranco Pannone e Ambrogio Sparagna racconta, liberandosi da ogni retorica, la figura del soldato, dall’Unità d’Italia fino ai giorni nostri. I soldati, gli ultimi, quelli che non sapevano neppure dove andavano, sradicati da terre come Basilicata e Calabria, venivano condotti ai confini con l’Austria, a morire nelle trincee… Il racconto è tratto da quattro diari di guerra: di un soldato del Regio Esercito di stanza a Pontelandolfo, in Campania; di un combattente in Etiopia nel 1935; di una donna che divenne partigiana sulle montagne tra Parma e La Spezia; di un sergente della Marina militare in Kosovo, Vincenzo Marasco, principale voce narrante, che ha poi preferito la zampogna al mitragliatore ma continua a dichiarare che sarebbe pronto a morire per il suo paese.
I diari descrivono gli orrori e le contraddizioni: ingiurie, parole razziste contro gli Etiopi, dette con tutto l’odio per poi riflettersi in parole di pietà dopo il terribile spettacolo dei corpi bruciati dal gas. A dire il vero, sapendo che la conquista dell’Etiopia, voluta dall’imperialismo fascista, rientra in un crimine di guerra perpetrato per circa sei mesi, il sentimento buono mi appare superficiale. E quella domanda, che all’inizio mi sono posta, sporca i volti dei soldati sempre in fila, rasati di fresco, sorridenti e con una lettera d’amore pronta nella mano. In quelle righe si leggeranno solo alcune verità, mai confessioni: «Madre, ho ucciso. Ho stuprato una donna, madre ho lanciato quintali di bombe sapendo che sotto c’erano solo civili, madre per combattere mi sono trasformato, abbrutito…». Eppure so che esistono quelle negate confessioni perché oggi i soldati che più hanno dato la morte commettono suicidio il doppio dei compagni. Il suicidio effetto collaterale devastante, considerato dai ricercatori della Difesa Usa sorprendente e intollerabile. Ormai sono più i morti per mano propria che per mano del nemico, come in Iraq e in Afghanistan.
Nel documentario viaggia la mia domanda. E per la prima volta ho potuto vedere certe scene sempre evitate dai media: i massacri dell’Italia colonizzatrice, i corpi bruciati da quella che fu la terribile sorpresa dell’iprite, una pioggia mortale che arriva chiusa in fusti che cadono dal cielo e espandono un liquido incolore. «I soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i laghi, i pascoli, furono di continuo spruzzati con questa pioggia mortale per uccidere sistematicamente gli esseri viventi, per avvelenare con certezza le acque e i pascoli» (come disse Hailè Selassiè dinanzi all’assemblea ginevrina il 30 giugno 1936). Nelle immagini i corpi colpiti da necrosi del protoplasma cellulare sono neri, spalle a terra, rannicchiati con gli arti nell’aria per la sofferenza.
Canti di varie epoche attraversano il racconto, ricuciti da Ambrogio Sparagna tra i graffi e la polvere di vecchie immagini che vengono dall’archivio dell’Istituto Luce Cinecittà. Dall’ottocento ai giorni nostri la musica costruisce un sentiero contro la guerra. Infatti non sono canti patriottici né di retorica militaresca ma popolari, di preghiera affinché gli uomini tornino salvi. Oppure, come nel canto iniziale, sono beffardi e ripudiano la guerra. Lo stesso Sparagna ha composto la canzone Senza fucili e senza cannoni, una ballata sullo stile dei cantastorie che narra di un suonatore che fa una magia: trasforma i proiettili nelle più golose cose da mangiare e «…in allegria si disertò la fanteria».
Altri brani sono cantanti da Giovanni Lindo Ferretti, che è stato cantante e paroliere nella band CCCP – Fedeli alla linea ed è considerato uno dei padri del punk italiano, e Francesco Di Giacomo cantante e voce solista potente e indimenticabile del Banco del Mutuo Soccorso che riuscì a registrare questa canzone poco prima di morire. A Francesco De Gregori, con il brano San Lorenzo, tocca il finale commovente, la sua voce vibra sulle immagini del bombardamento di Roma: «Cadevano le bombe come neve e un uomo stava a guardare la sua mano, viste dal Vaticano sembravano scintille, l’uomo raccoglie la sua mano e i morti sono mille». La musica oltre a un’intesa emozione, costruisce riflessioni anche sul non detto. Siamo cresciuti malati di pace ma di una finta pace perché la parola guerra è diventata un tabù dopo Hiroshima, oggi infatti si chiama missione di pace e così ha inglobato la parola pace. L’orrore della guerra è ancora concepito come possibile. Nessuno infatti ha chiesto perdono per il grande massacro di Hiroshima, neanche Obama lo fece quando si recò in quei luoghi. Ancora oggi lo sgancio dell’atomica non è considerato un «crimine ai danni del genere umano» ma un «male necessario». Dimenticando che il vortice della violenza travolge tutti.
E così avviene la cancellazione della memoria a Piazzale Loreto, delle barbarie sui corpi di Mussolini e della Petacci come risposta dei partigiani alla strage del 10 agosto del 44, quando i fascisti dileggiarono le vittime dell’eccidio nazista. Lo scrittore Ferruccio Parazzoli, anziano ma con una voce sicura e coinvolgente, racconta che abita proprio lì, su quel piazzale e ce lo mostra com’è oggi, anonimo, uno svincolo stradale come un altro mentre scorre un raro filmato d’epoca e c’è un’inquadratura, un primo piano su Mussolini disteso a terra, come coperto di polvere bianca che mi ricorda il Cristo velato.
Gli italiani brava gente, proprio come i narratori nel documentario: un po’ sono razzisti e massacrano, un po’ aiutano i bambini a piedi scalzi nella neve; un po’ mettono a ferro e fuoco un paese, un po’ hanno pietà per i morti arrostiti; un po’ odiano la guerra, un po’ amano la patria… Insomma un cuore a metà. E si solleva una riflessione esistenziale così necessaria quanto oggi demodé.
E si torna sempre al punto d’origine, per me tutto s’addensa in un’unica voce, quella di mia nonna che, subito dopo i suoi racconti di guerra, intonava canti con voce cristallina e dispettosa. E mi risale all’orecchio, quell’aspetto tragicomico del film, l’ultimo siparietto di Pulcinella che, per voce e mano di Maurizio Stammati, si trastulla di eternità.