Pier Mario Fasanotti
A proposito di “La mafia non lascia tempo”

La mafia esiste

Gaspare Mutolo, storico collaboratore di giustizia, dice la sua su Cosa Nostra: Riina, Provenzano, Messina Denaro. Poi gli intrecci con lo Stato e la politica. Ne viene fuori un'Italia spaventosa. Più vera del vero

Ora vive a Roma, ma non si può dire in quale zona. E stato mafioso per 19 anni, ha compiuto 22 omicidi, è entrato in Cosa Nostra nel’73 e si è dissociato nel ’92. È uno dei più importanti pentiti. A spingerlo a capovolgere ufficialmente la sua biografia criminale furono le domande serrate del giudice Pier Luigi Vigna e dalla dottoressa Silvia Della Monica, in un ospedale fiorentino, ma soprattutto i contatti con due uomini di legge che considera “grandi”: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quelli che lavorarono con straordinaria intelligenza (e visione d’insieme) per dare un colpo mortale alle associazioni di stampo mafioso. Ha potuto constatare anche l’arguzia e la sapienza di altri magistrati, tra cui Nicola Gratteri. Il ragazzotto palermitano che passò dai furtarelli alla rete criminosa si chiama Gaspare Mutolo. Fin da piccolo è stato circondato da amici e parenti in odore di mafia: scelta obbligata quindi? Quelle influenze le comprese davvero Giovanni Falcone, che sapeva “ragionare” in sintonia con la mafia. La sua storia, ricca di richiami anche inquietanti, è scritta da Anna Vinci, molto vicina a Tina Anselmi, nel libro Gaspare Mutolo, sottotitolo La mafia non lascia tempo, edito da Chiarelettere (238 pagine, 16 Euro). A chi ha raccolto la parte nera della sua vita ha dichiarato: «Sono un sopravvissuto. Sono la memoria orale della Mafia».

È un libro-memoir importantissimo, una descrizione a tutto tondo di un universo che ha avuto anni ruggenti e anni di declino, un mondo dove basta fare un cenno (altro che “papelli” o scritti vari) per sparare, strangolare e seppellire nuda la vittima in una fossa sulla quale si versa l’acido e poi la calce viva (per evitare che qualche poliziotto risalga al suo nome). La sua confessione è scritta di getto (anche se guidato da Anna Vinci), e al lettore verrebbe voglia di mettere un po’ di ordine, se non altro temporale. Ecco perché, per maggior chiarezza, procediamo per capitoletti.

Sentimenti. Mutolo dice di provare rimorso. E un grande amore per la sua famiglia (ha quattro figli, che ora portano un altro nome). Evita luoghi che potrebbero essere pericolosi, sa che gli irreducibili potrebbero riconoscerlo, non nasconde la sua nostalgia per un gelato a Mondello e il respiro delle zagare. «In 21 anni – dice – non ho mai avuto un “richiamo”, mai caduto in tentazione». Ha voluto lavorare, dimenticando i milioni che maneggiava con il narcotraffico, «ma quando viene fuori chi sei stato, la gente smette di fidarsi». Ha spiegato la sua odissea criminale ai figli: «Ci sono voluti anni, ma piano piano hanno capito che non sono cattivo».

Relazioni pericolose. Da ragazzo, nel dopoguerra, sentiva sempre dire che “la mafia non esiste”. Ora sorride a questo ricordo e dice: «Come posso permettermi di accusare di essere stato al nostro servizio uno che sfila alle commemorazioni in ricordo delle vittime della mafia?». Durante un interrogatorio, una guardia gli diede un calcio sotto il tavolo quando, davanti a Borsellino, «feci i nomi di Bruno Contrada (numero tre dei servizi segreti, ndr) e del giudice Domenico Signorino. Si aveva la paura che s’innestasse «una reazione a catena». Con Ajala, Mutolo ha parole pesanti: «Sosteneva che Salvatore, fratello di Borsellino, avrebbe dei problemi di salute mentale, che sarebbe un “caso umano” e altre cose poco gentili». Mutolo, dopo la strage di via d’Amelio a Palermo, in cui persero la vita Borsellino e i cinque agenti di scorta, dichiara che il primo “funzionario” a recarsi sul posto fu proprio Ajala. E si chiede: fu lui a trafugare la famosa “agenda rossa” del giudice, piena zeppa di appunti importantissimi, compresi quelli attinenti alla collusione Stato-mafia? Gaspare aggiunge che «aveva dei punti deboli sui quali eventualmente far leva e non faceva paura come magistrato». E aggiunge che il ricorso in appello per alcuni mafiosi era una manna, tanto ci pensava l’«ammazzasentenze» Corrado Carnevale che in Cassazione, «ricorrendo ai vizi di forma, annullava le sentenze di alcuni big mafiosi». Mutolo avrà aperto pochi libri in vita sua, ma è arguto come uno che ha assorbito esperienza dalla strada e dalla frequentazione nelle Commissioni, ossia “cupole” territoriali. Non risparmia i preti, non sdegnosi di accettare soldi per le processioni  (abitudine ancora in voga, ndr), non risparmia alcuni giornalisti «compiacenti», coloro che si dicevano sicuri che lo Stato offriva una vera protezione grazie alla Dia, direzione investigativa antimafia. E poi si sfoga: «Io stesso ricevetti molti attacchi. Ricordo soprattutto i più terribili, quelli di Tiziana Maiolo e di Lino Jannuzzi, scattati in piedi non appena cominciai a parlare dei legami tra mafia e sistema politico». Gaspare ci va pesante. Dice che Tommaso Buscetta (poi collaboratore di giustizia) «non era interessato nelle sue dichiarazioni a coinvolgere uomini delle istituzioni, i politici soprattutto». Buscetta appariva molto stanco. Oltretutto gli avevano sterminato la famiglia. «Sotto certi aspetti – precisa Gaspare – io sono anche più importante di Buscetta».

Alte sfere. Non c’è da illudersi: «In Sicilia la politica ha sempre fatto affari con la mafia, ancora ne fa e ancora la teme». Importante non è il voto del mafioso, ma della gente che si riesce a mobilitare. Scovati certi punti deboli, al politico si accenna qualcosa e lui capisce che attraverso una fitta rete potrebbe fare carriera. Soldi in cambio? Mai. La stessa cosa vale per i giudici popolari, ai quali, al massimo si regala un brillante. «La mia storia di mafioso – rivela Mutolo – è intrecciata con quella che sono rimasti impuniti. Basti pensare a Silvio Berlusconi. È un uomo che ho sempre ammirato, di grande intuito, ma non posso ignorare che negli anni Settanta i nostri percorsi si sono spesso incrociati». Mutolo ricorda che nel ’74 era a Milano, per un sequestro («ci vogliono almeno due mesi»): «L’obiettivo non lo conoscevamo, ma sapevamo che era uno importante. Non avevano fatto nomi, avevano solo detto “quello che sta costruendo Milano Due”. Lo avremmo dovuto tenere in uno scantinato… poi da Palermo arrivò una telefonata: “Salta tutto, tornate qui”». Ecco il perché: nella villa di Berlusconi era stato chiamato (dal factotum di Berlusconi con cui fondò Forza Italia, nel 2018 condannato a 12 anni) un certo Vittorio Mangano, pluriomicida. Venne poi soprannominato “lo stalliere di Arcore”. Un ottimo deterrente. Palermo decretò: «Berlusconi non si tocca». Mutolo racconta che attorno alla Fininvest circolavano «nostri uomini» e nelle casse della società finirono i soldi, già riciclati, del boss Stefano Bontade. «C’era anche un grosso intrallazzatore: Flavio Carboni. Lo conobbi attraverso il mafioso Calò, poco prima degli anni Ottanta, quando partì la grande ondata di speculazioni in Sardegna».

Carboni, sempre secondo Mutolo, fu imputato di contraffazioni, ed era molto vicino di un certo Lena, di Aulla, che «falsificava una quantità spaventosa di monete nigeriane, una quantità tale da far fallire il paese». Durante una perquisizione, venne fuori un assegno del finanziere Roberto Calvi (fuggito all’estero grazie a Carboni e poi suicida a Londra nel ’92). Chiacchierando con questo singolare personaggio, Mutolo apprende che dietro a quel traffico c’era nientemeno che Giulio Andreotti. «La notizia non ci meravigliò più di tanto, visto che noi conoscevamo Andreotti attraverso Salvo Lima» (parlamentare Dc, ucciso poi nel ’92 quando si stava recando a un convegno dove c’era l’intramontabile politico romano, ndr).

La belva. Mutolo incontra nel carcere dell’Ucciardone di Palermo il corleonese Totò Riina: gli fu accanto, fin dal ’69, assistendo il tradimento nella mafia. All’inizio fu Gaspare ad aiutare economicamente Riina e sua moglie Ninetta Bagarella. «Già allora – racconta – Totò mi diceva che non gli interessavano i soldi. Io ho altre cose per la testa, diceva. Gli feci anche da autista, ero affascinato da lui anche se mi era già chiara la sua ossessione per il potere, il comando, il controllo». Per tutto l’intero libro, Mutolo descrive con parole aspre quell’uomo «con occhi da serpente; se la mafia era un cerchio protettivo, Riina spezzò quel cerchio, uscì dalla nostra tradizione… il suo pensiero fisso era: questo è diventato troppo importante, meglio ammazzarlo… all’inizio non ce n’eravamo accorti, ma Riina ormai era diventato una minaccia per chiunque. Uno dopo l’altro eliminava i suoi amici… nascondeva la sua vera natura dietro un leggero velo di ipocrisia… già nel ’74 aveva consegnato alle autorità Luciano Liggio, che era stato il suo capo (poi morì in galera, ndr). Liggio (che non era affatto stupido), aveva capito che non doveva fidarsi di Totò. Tra i due corleonesi preferiva Bernardo Provenzano». Con passo determinato e inesorabile, Riina «riuscì a portare avanti il suo progetto. Condizionava le scelte della Commissione, decidendo chi far vivere e chi far morire, mandando in rovina intere famiglie… dette un indirizzo unico a Cosa Nostra, libero di gestire il flusso degli appalti con la compiacenza dei costruttori e dei politici… come fece a fare quel salto di qualità? Semplice: approfittando del caos che regnava intorno a lui… era latitante, ma i suoi rapporti con Badalamenti e Bontade non erano dei migliori. La mafia si stava riprendendo a fatica da un decennio di guerre sanguinarie… furbo com’era, lui in quell’intreccio di tensioni riusciva a sguazzare… aveva i suoi fedeli e solo con essi si riuniva da latitante, decidendo furti e assassinii».

Nel ’92, con lo scandalo di Tangentopoli venne allo scoperto il sistema di corruzione che univa politica e malavita. Ma anche in Sicilia crollarono i vecchi equilibri. «Lo Stato cominciò a franare – racconta Mutolo – e Cosa Nostra franò con lui». Il problema fu quello di trovare altri referenti politici. Intanto Riina seminava morte: «Con lui ammazzare donne e ragazzini divenne un’abitudine. Penso ai figli di Badalamenti e Inzerillo o alla moglie di Giovanni Bontade. Sono loro i traditori, i corleonesi, non io». Anche con Riina in carcere le cose non cambiarono. Al suo posto arrivò il cognato Leoluca Bagarella a portare avanti la strategia del terrore.

Durante le udienze, Riina «si presentava come umile operaio, un poveraccio: quando disse che lavorava per 300 mila lire al mese, scoppiammo tutti a ridere. Negare, negare: era il suo sport preferito».  Mutolo, il primo luglio del ’92, venne interrogato da Borsellino (che aveva conosciuto nel’75), si stupì quando questi ricevette una telefonata da Roma. Era l’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino, che lo voleva subito a Roma. «Il verbale fu sospeso. Borsellino tornò in stanza che era molto arrabbiato. Aveva una sigaretta in bocca e una in mano. Glielo feci notare: “Che fa dottore? Ne fuma due”. Al ministero c’era pure Contrada e la cosa non gli andava giù». Il 16 e il 17 luglio del ’92 Mutolo incontrò nuovamente Borsellino, per completare il quadro mafioso. «Dei rapporti con la politica e la magistratura, pensai, avrei parlato in seguito. Non potevo sapere che un seguito non ci sarebbe stato. Quelle lunghe ore di interrogatorio furono però segnate da un episodio preoccupante. Si fece una pausa. Mentre attendevo in corridoio, sentii Borsellino parlare ad alta voce. Era infuriato e gridava: “Ma questi sono matti!”». Gaspare racconta che l’arrabbiatura del giudice non poteva dipendere dalle cose di mafia di cui stavamo parlando: «Era molto più probabile che stesse commentando le scelte di qualcuno più in alto di lui che – nonostante lo Stato stesse vincendo quella battaglia – era deciso a correre in aiuto alla mafia».

Interrogativi. Un giorno, racconta Mutolo «mi venne a trovare Gianni De Gennaro, che all’epoca era il capo della Dia. Mi chiese se conoscessi Luigi “Gino” Ilardo. Gli dissi che era una persona molto seria. Ilardo aveva segnalato a un colonnello dei carabinieri dove si trovata Bernardo Provenzano. Inspiegabilmente però i carabinieri restarono con le mani in mano, decretando così la sua condanna a morte: Ilardo venne freddato nel maggio del ’96, sotto casa sua. Aveva da poco firmato il protocollo di collaborazione». Altra mancata perquisizione: la casa di Riina, in galera il 15 gennaio ’93, non fu perquisita. Sostiene Mutolo: «Forse fecero una perquisizione per i fatti loro, in silenzio, per portarsi via tutto quello che c’era nella cassaforte. Là dentro (nella casa, ndr) c’erano delle cose molto più importanti di quelle contenute nell’agenda rossa di Borsellino, tutti i rapporti e gli agganci di Cosa Nostra con la politica regionale e nazionale. Evidentemente Provenzano aveva trattato con il Ros per tradire Riina, e il Ros aveva deciso di proseguire con l’arresto a patto di poter far sparire quei documenti e proteggere gli interessi dei potentati coinvolti. Quello che si sa per certo è che il covo non venne perquisito subito, dando ai mafiosi il tempo di smantellare tutto. Riuscirono addirittura a ritinteggiare le pareti per cancellare ogni impronta».

E oggi? A comandare la mafia è il latitante Matteo Messina Denaro, il quale «ha un crescente potere affaristico-politico, ma un minore potere militare… Ogni tanto mi chiedono: “quando lo troveranno?” La mia risposta è sempre la stessa: “Quando farà comodo”». E si ricorda quanto dicevano certi suoi “amici”: «Noi siamo immortali». Una frase da Gattopardo (“because we are Goods”).

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