Al Colosseo
Mistero Cartagine
Una grande mostra cerca di fare luce su Cartagine e il suo mito. Ma, forse per la scarsità di riferimenti storici certi, più che chiarire il mistero, l'esposizione lo amplia. Perché davvero la storia di questa città fu cancellata dai (vincitori) romani
Un senso di fastidio, come l’imbarazzo di un maldimare in arrivo, un bisogno di terra ferma, mi resta dentro all’uscita della mostra Carthago, in corso fino al 29 marzo al Colosseo. Molto dipende dalla folla che assedia scomposta e accaldata la piazza e le arcate del Colosseo, un selfie davanti a ogni vetrina, dilaga nella spianata dei Fori, dove l’esposizione si estende in due capitoli aggiuntivi. È sempre così, non vedo rimedi. Ma a contribuire al malessere è anche il copione della mostra. Apprezzabile e raro che si cominci finalmente ad accendere i riflettori su Cartagine per guardare oltre la sua storia malscritta e il suo mito di città maledetta, rivale di Roma. E sulla carta i curatori sembrano attenersi a quest’impostazione politicamente e scientificamente corretta che dovrebbe liberarli e invece li imbriglia.
Molte mappe e molte didascalie per identificare i luoghi, le sponde del Mediterraneo. Per raccontare la nascita della città, come una colonia fenicia fondata da un nucleo di migranti partito dal Libano, attorno al nono secolo a.C., per altri ancor prima. E poi la sua espansione lungo le rotte della navigazione commerciale, nella quale la gente fenicia primeggiava, fino all’incontro fatale con Roma. Trecento anni di convivenza contrattata che sfociano però, inesorabilmente, nel conflitto e nella guerra. Seguono altri cento anni scanditi da tre diverse campagne, segnate da esiti alterni, fino allo scontro finale a Zama e alla distruzione di Cartagine che poi risorgerà per volere di Augusto come colonia romana per precipitare di nuovo nell’abbandono con il crollo dell’Impero. E resuscitare infine con i bizantini, come una costola strategica ma marginale.
Rovine posate su altre rovine, difficili da interrogare perché le uniche fonti scritte sono quelle dei vincitori, storici e cronisti romani. Anche se sono ripresi scavi e ricerche. E il sito di Cartagine, ricostruito, e vicinissimo a Tunisi, è molto frequentato dai turisti. La mostra cerca di spezzare questo monopolio fuorviante con la suggestione dei cimeli che porta in bacheca. Ma qui in qualche modo si impantana. Per due ragioni. La prima è che la scarsezza di documentazione non riesce a valorizzarli, spiegarli.
Due esempi per farci capire. Il primo è un sarcofago situato proprio a inizio percorso. È datato tra il terzo e quarto secolo a.C.. Raffigura, sbalzata nel marmo che conserva ancora tracce del colore originario, una donna adagiata di schiena, una corona sui capelli che incorniciano a bande il suo volto enigmatico, il corpo formoso coperto da due ali incrociate a coprirlo. Una regina o una dea, quale? O ancora una sacerdotessa o una maga, dedita a quale culto? La secca didascalia non lo dice. Scoraggiando i più a serbarne il posto nella memoria, anche quella breve dei turisti mordi e fuggi, che merita per la sua enigmatica bellezza. E autorizzando altri a lavorare a casaccio di fantasia. In me risveglia il ricordo delle janare della costa amalfitane, mito probabilmente importato dall’Oriente: un misto tra parche e sirene che aggrediscono e uccidono i malcapitati attratti dal loro canto.
Il sospetto è che in mancanza di solide basi interpretative i curatori giochino un po’ troppo sul fascino del mistero e dell’esotico. Delle forme inusuali. Come nel secondo esempio: una vetrinola che espone un campionario dei pezzi più suggestivi di questa rassegna. Si tratta di una decina di mascherine modellate in pasta di vetro, una delle specialità degli artigiani punici insieme alla perizia da orefici. Omini con la faccia laccata di bianco, grandi occhi, barbe e capelli arricciati a rotolo, scelti non a caso per il manifesto e la copertina del catalogo. Anche qui sappiamo solo che si tratta di pendenti. Chi se li metteva al collo e perché? Che speranze, che poteri affidava a queste figurine, che non sembrano solo oggetti alla moda, simboli di civetteria? E in quali rituali iscrivevano invece la loro presenza quelle maschere di terracotta di volti ghignanti e dalle fattezze negroidi in mostra qualche vetrina più in là? Feste religiose, spettacoli teatrali?
Dubbi e domande precipitano e restano confinati nell’enigma, perpetuando l’idea che questi cimeli siano un ennesima passerella degli stereotipi di gusto provenienti da un altrove dimenticato, Cartagine, lo stesso orizzonte posticcio su cui i pittori orientalisti dell’Ottocento hanno fondato le loro evocazioni per i salotti della borghesia d’Occidente.
Ed eccoci alla seconda ragione, che spiega il senso di maldimare, cui accennavo all’inizio. È come se i visitatori, almeno quelli più esigenti, fossero ad ogni passo sospinti, sballottati da due onde diverse di aspettative e di offerte. Da una parte la voglia di sentirsi raccontare davvero una storia mai letta, fare un’esperienza arricchente e trovarvi risposta a una serie di domande che ci incalzano dai banchi di scuola: com’è andata davvero tra Roma e Cartagine?, e cos’era quella città che ha dominato per centinaia di anni le sponde del Mediterraneo di Levante e la propaganda romana ha iscritto nell’immaginario come il nemico assoluto e perverso da distruggere ad ogni costo? Non è forse questo il richiamo di novità con cui è stata pubblicizzata questa iniziativa?
E dall’altra parte riaffondare nel rassicurante abbraccio del luogo comune, di un racconto sommario e scontato. Verso il quale ci portano inevitabilmente le scenografie che impaginano i siparietti più intriganti, quella gigantografia ripetuta di un bellissimo quadro rinascimentale che ri-ambienta in una reggia cinquecentesca l’incontro tra Enea e Didone. Già, il mito di Didone sedotta, abbandonata e suicida, grande invenzione poetica di Virgilio, ma una bufala storica che non sta in piedi. Come ci ricorda un altro mito, di provenienza fenicia: quello di una regina, battezzata con altro nome, costretta a fuggire da Tiro per sottrarsi a un fratello spietato che approda sulle colline davanti al mare della odierna Tunisia, ottiene dai locali il permesso beffardo di ricevere in dono tanta terra quanta potrà coprire la pelle di un asino e lo aggira con uno scatto di astuzia, ritagliando la pelle dell’animale in sottili striscioline di cuoio.
Trame da cinema hollywodiano, nelle quali i cartaginesi veri sono costretti, anche in questa mostra che doveva essere occasione di risarcimento, a far da comparse. Alieni, distanti, come quelle statuine di bronzo di guerrieri, trovate negli scavi di Biblo con cui inizia il percorso. Le testa prolungata dall’elmo, le braccia rigide e tese, le gambe che segnano un passo di marcia.