A Palazzo Bonaparte di Roma
Impressionisti da camera
Una mostra di opere minori di maestri impressionisti apre un nuovo spazio (privato) per la grande arte nella Capitale. Un'occasione per mettere in relazione la pittura Ottocentesca con la sua destinazione "intima", quasi da arredamento
Una doppia inaugurazione per palati fini. Apre per la prima volta al pubblico palazzo Bonaparte, l’edificio all’angolo tra piazza Venezia e via del Corso, una chicca dell’architettura tardo barocca di Roma, che accolse per oltre trent’anni fino alla sua morte Maria Letizia Bonaparte, madre di Napoleone: lo fece rimodellare a suo gusto da un architetto allora in gran voga, Antonio De Rossi, ne fece ridecorare gli interni con stucchi ed affreschi e lo battezzò con il nome di famiglia, ancora inciso sul frontone dell’altana.
A festeggiare l’evento è l’allestimento, al piano nobile, di una mostra organizzata dalla società Arthemisia, una delle aziende leader del settore espositivo, che d’intesa con la proprietà, le Generali Italia, ne gestirà in esclusiva le attività, ritrovando così casa a Roma dopo lo sfratto dal Vittoriano. Ancora una volta in passerella i maestri gettonatissimi del secondo Ottocento francese. Una scelta di sicura cassetta riscattata però, come anticipa il titolo, Impressionisti segreti, dal progetto delle due curatrici, Claire Durand-Ruel e Marianne Mathieu, di una campionatura inedita: tutte o quasi le opere provengono da collezioni dell’epoca, e, custodite gelosamente, hanno circolato poco o non sono mai state esposte.
Il copione scagliona le sessanta opere in vari capitoli, ma è un ordine in qualche modo pretestuoso e aggirabile. Molto più utile è invece approfittare delle suggestioni dell’ambientazione. Come il fascino retrò delle pareti tinteggiate a colori pastello: ognuna delle sei sale – piuttosto piccole – una tinta diversa, su cui i quadri, anch’essi di piccolo e medio formato, sono adagiati, restituendo loro una funzione più intima di arredo e abbellimento domestico, lo stesso appeal che è all’origine del boom di questa nuova pittura così immediata, vivace, in presa diretta con la realtà. Insomma l’occasione di liberare ed esercitare lo sguardo senza troppi vincoli, in un dialogo di puro piacere con la tela che stai osservando.
Non sono tutti capolavori. Alcune tele, sono fastidiosamente datate. Specie nel siparietto riservato ai seguaci del puntinismo, quella scomposizione e ricomposizione dell’immagine in pixel colorati che il genio di Seurat impose a fine Ottocento come bussola di una nuova avanguardia. Il padre fondatore della corrente manca purtroppo all’appello. Tra i suoi compagni di strada il più rappresentato è Henri Croos, che nei tre lavori in esposizione piega quella tecnica così rigorosa e così spaesante per imboccare una deriva accomodante di bucolico ritorno all’antico o di rifugio nelle atmosfere sospese e rarefatte di Puvis de Chavannes, scivolando inesorabilmente nella maniera e nel kitsch. Un tradimento che raggiunge la sua punta più vistosa in un ritratto di violinista del belga Theo van Ryssemberghe, datato 1894: il pulviscolo di dissolvenze e sfumature dello stile puntinista cristallizzato da un sovrapporsi di grumi di colori corposi e scintillanti.
Ma in compenso la qualità media dei quadri è molto alta. Un privilegio poter ammirare quel singolare esercizio di stile con cui un Cezanne ancora sconosciuto al grosso pubblico, si misurava col Don Chisciotte di Cervantes, immaginandolo alle prese con un gruppo di bagnanti nude e lascive. O quel paesaggio bretone in cui Gauguin cominciava a liberare la sua passione iconoclasta per il colore.
Corposo e imperdibile il siparietto riservato a Claude Monet, anche perché la data e la scelta delle opere accompagnano e documentano con molta efficacia l’evolversi di quel suo caparbio inseguire la fuga del tempo e la forma delle cose nel mutar della luce. Ben dosata l’alternanza di paesaggi en plein air e ritratti di signore e fanciulle dalle guance rosee da bambola che evoca il talento ammiccante, l’immediato impatto, la gioia di vivere su cui Renoir ha fondato il proprio successo. Ricostruito con sapienza il percorso pittorico di Pissarro, concluso da una folgorante veduta del 1899, un filare di faggi scolpito contro un cielo d’un biancore accecante, con una sintesi e una trama di sottili contrasti che quasi profetizza le stilizzate soluzioni liberty di Klimt. Giusta e riparatrice l’attenzione riservata a Gustave Caillebotte, grande maestro di inedite soluzioni prospettiche, spesso inspiegabilmente trascurato, almeno in Italia, nelle grandi rivisitazioni dell’Impressionismo, forse perché le sue larghe campiture e il suo aggressivo e malinconico realismo sconfinano nella parallela, a lungo marginalizzata, corrente dei macchiaioli.
Sobrio ma mirato l’omaggio allo sguardo al femminile di Berthe Morisot, musa e collega di tutti i grandi autori dell’Impressionismo. Compreso Manet, che la utilizzò spesso come modella, con cui ebbe probabilmente una relazione e poi riuscì a imparentarsi sposandone il fratello. In mostra un quadro in cui Manet le dedica un ritratto personalizzato, che sembra una presa di distanza grondante malanimo e umori cupi: la testa avvolta da una veletta che ne cancella i tratti, gli occhi ridotti a fessure sbilenche e senza espressione, il guanto sollevato a coprire il volto, le dita irrigidite come unghie da avvoltoio sul mento. Il dipinto reca la data del 1872. Due anni dopo Berthe celebrerà il matrimonio con il fratello minore del pittore Eugene.
Certo, questo è scivolare nel pettegolezzo. Ma ad autorizzarci in tentazione non è anche l’atmosfera complice e raccolta che si respira in queste stanze, un’eco di voci e sussurri remoti che neppure gli affreschi alle pareti, le austere allegorie dipinte e la compostezza degli stucchi che gocciolano sul soffitto riescono a disperdere? Non è anche così che ci parla e ci impone l’ascolto questo labirinto di salotti dove l’illustre proprietaria riceveva e intratteneva ogni giorno gli esponenti della Roma papalina di allora. Un chiacchericcio nel quale maldicenze, insinuazioni, sospetti calunnie riaccendevano e insaporivano la conversazione. E da buona padrona di casa Letizia Bonaparte faceva la sua parte. Nel raccogliere e fornire informazioni. A che cos’altro serviva altrimenti quel curioso balcone ad angolo, che deformava la facciata del palazzo, e che ora è possibile esaminare dall’interno, percorrendo quello stretto corridoio tappezzato di eleganti grottesche, affacciandosi dagli spiragli di quelle finestre appena sollevate per affacciarsi sul traffico di via del Corso. Dicono le cronache che mamma Bonaparte ci trascorresse diverse ore ogni giorno insieme alla sua dama di compagnia. A spiare, senza essere vista quel che succedeva giù sotto. Si, certo, anche le corse di Cavalli e i lazzi del carnevale romano, che da lì partiva, ma negli altri giorni solo il via vai delle carrozze e dei passanti lungo quel rettifilo di dimore nobili e di intrighi. Chi stava con chi? Chi andava dove e perché? Dettagli su cui fantasticare e accenni di storie da rivendere al prossimo ricevimento.
Più che giusto che un interno così prestigioso e lussuoso imponga la sua presenza. Non sarà facile per Arthemisia programmare un’attività espositiva remunerativa e all’altezza in queste sale così anguste, su queste pareti così caratterizzate ed ingombre.