Al museo Maxxi di Roma
I figli di Kandinskij
Una mostra (da un'idea di Lea Mattarella) fa il punto del rapporto tra arte contemporanea e "spirituale" (anche in versione new age). Una fotografia attendibile - piena di luci e ombre, dunque - della ricerca di oggi
Lo spirituale nell’arte. Nasce da un proposta incompiuta che Lea Mattarella, critica e storica da sempre avversa alle mode che pilotano il sistema dell’arte, si è lasciata alle spalle con la sua morte, il copione della mostra, appena inaugurata al Maxxi, che rispolvera questo titolo, preso in prestito da un celebre saggio di Kandinskij del 1910. Giovanna Melandri ne rivendica la primogenitura, ricordando l’impressione che le derivò dalla scoperta di quel libro così profetico mentre viveva negli Stati Uniti nell’era reaganiana. E poi le lunghe, appassionate chiacchierate con Lea Mattarella sull’opportunità di inserire quella bussola – l’arte come espressione dell’interiorità, tensione verso il superamento delle apparenze e la pienezza dell’essere – verificandone l’attualità, per meglio registrare il corso e gli slittamenti dell’arte di oggi. «Non era facile – aggiunge -inserire questo filone di ricerca nel cartellone del Maxxi, segnato da una forte impronta sociopolitica, attento ai contesti più roventi dell’era globale. Ma non è un inversione di rotta. Se mai l’introduzione di una traccia di riflessione trascurata nel dibattito tra le arti contemporanee. E tutto lo staff direttivo ha sposato l’operazione e collaborato alla sua riuscita».
È vero, ne è venuta fuori una bella mostra. Anche se a suo modo il curatore, per non smentire la propria vocazione per il versante concettuale e i codici narrativi più in voga, l’ha in qualche modo allontanata da sé e dal nostro sguardo. Cambiando il titolo di partenza di Kandinskij con un lieve ritocco sincretico, «della materia spirituale dell’arte», una sintesi in cui il conflitto filosofico tra i due termini, spirito e materia, viene aggiornato alle oscillazioni del postmoderno ed ammortizzato. Ma soprattutto inserendo lungo il percorso un suggestivo ed estraniante campionario di diciassette cimeli antichi, provenienti dal Vaticano e altri musei, che rimanda ai riti d’iniziazione, ai misteri della divinazione e alla articolata simbologia di etruschi, greci e romani. Dalle lastre votive in marmo che ritraggono il fegato delle vittime sacrificali, dal quale gli aruspici decifravano dettagliati indizi sul futuro, alla coppia di pavoni in marmo che decorava la villa di Adriano, la bellezza come un attributo dei segreti ancestrali della Natura e del Divino. Dalla corona in calcare offerta alla Fortuna Primigenia alla testa di Gorgona di un tempio etrusco.
Un castello ben confezionato di rimandi da cui molte delle opere in mostra traggono forza e senso. Esplicito l’omaggio al padre fondatore dell’arte astratta dello svizzero John Armleder, con quella grande tela coperta da fasce di colori vibranti che precipitano però nella pura decorazione, tradendo alla fine il modello. Intensa la condivisione del magico degli antichi altari sacrificali che traspare dalla scultura con cui l’ottantenne americano Jimmie Durham si riappropria di uno dei riti fondanti dei suoi antenati pellerossa, l’accensione del fuoco in una cavità scavata nella pietra e riempita di piccoli arbusti. Un’aura di sacro che aleggia nella grande tela del 1988 con cui Francesco Clemente, uno dei pionieri della transavanguardia che ha fatto fortuna negli Usa per la carica new age del suo immaginario, intreccia in un fitto mosaico di segni due simboli consolidati del potere laico e del culto cattolico come la corona e il serto di spine del Cristo torturato.
Agli archetipi delle culture primigenie si rifà, un altro suo compagno d’avventura della transavanguardia, Enzo Cucchi, modellando a fine percorso una dozzina di piccoli idoli di preistorici adoratori del fuoco. E poi, in uno speciale siparietto, allestito in una sala, che il museo gli ha riservato in un’ala distante, scolpendo in pietra una classica icona della scultura romana, un puttino che si regge addolorato e indifeso un piedino sul quale è avvolto uno scorpione che l’ha appena punto. Velenosa anche la scritta che Cucchi ha voluto tracciare col pennello sulla parete: «L’arte di oggi non ama la pittura». Riaprendo una ferita di cui il sistema dell’arte, orientato sul culto di altri linguaggi, si ostina a non tener conto nel disegnare i traballanti e arbitrari confini del contemporaneo. Del sistema fa parte anche il Maxxi, anche se in questa mostra, la pittura non manca. Se si segue la strada dello spirituale, le infinite tracce di un modo più profondo di rileggere l’umanità e i suoi valori, impossibile non ricorrere alle tecniche della tradizione. Ma è un risarcimento che sembra confinarla in un paradiso distante, separato, inattuale.
Ci sono le tele di Sean Scully, costellate di campiture geometriche di colori sfumati che inseguono la scia dell’astrazione mistica di Rotkho. Ci sono i ritratti, sovraccarichi di citazioni e scivolate nel surreale di Victor Man. C’è il gigantesco arazzo di Abdoulaye Konatè, una sinfonia sul Mare come grande madre, fonte di vita, popolata di pesci e fauna esotica da sogno d’infanzia. Inattuale rischia di apparire anche l’opera a mio avviso più poetica e incisiva di tutta la mostra. È un fotogramma firmato da un’artista multimediale iraniana, Shirin Neshat: inquadra due mani aperte in segno di offerta, forse di preghiera, sui palmi spicca un ricamo di lettere arabe, che cita i versi di un grande poeta persiano Omar Khayyam vissute oltre mille anni fa, «Senza il puro vino non posso esistere».
Sarebbe stato molto interessante continuare con altre voci questo discorso. E invece prevale – vistoso peccato di regia – il bisogno di narrare lo spirituale nell’arte non nella sua delicata concretezza di gesto di sublimazione e di vita, ma nella sua ambiguità di fuga nell’irrazionale. Più che di sollevare dubbi e domande, o almeno provocare smarrimento il curatore, calandosi nelle vesti di cronista, la regia sembra preoccupata di cercare risposte spettacolari nei linguaggi spesso scontati degli artisti di oggi che la critica ha certificato. Perché altrimenti costruire il prologo della mostra sulla sfida di una parola al neon – pratica più che inflazionata – che sormonta il tendaggio d’ingresso: « Tutto»? Una scritta luminosa che simulando una sorta di apertura ai mille codici dell’infinito e del mistero, in realtà sembra introdurci alla condanna del nulla. Perché congedare il visitatore con un grottesco mandala, firmato da un artista coreano sessantenne, Kimsooja, un tondo di plastica che scintilla di luci come un flipper e ci investe con una una colonna sonora che mischia madrigali da chiesa e canti tibetani? E perché documentare la presenza della videoarte, con un solo filmato, girato in bianco e nero da un artista canadese, Jeremy Shaw, che mette in scena gli scongiuri new age di otto improbabili personaggi decisi ad impedire la fine del mondo, potenziando il loro cervello con Dna cibernetico mescolato a pratiche spirituali da figli dei fiori. Non c’era davvero niente di meglio in circolazione?
A consolarci di questa cadute di racconto c’è per fortuna una singolare istallazione relazionale dell’intramontabile Yoko Ono: due carcasse di barche a ricordarci l’esodo dei migranti e tanti pennelli a disposizione del pubblico che può sintetizzare pensieri e commenti usando il muro e il legname come lavagne. E un curioso esperimento di rilettura dell’antico di Elisabetta Maggio che con un tappeto di francobolli colorati ricostruisce le tarsie cosmatesche del pavimento della basilica di San Marco. Magari è solo un esercizio superficiale di abilità, ma almeno trasmette un pizzico di pensoso stupore.