Al teatro Brancaccino di Roma
Famiglia Macbeth
Maria Alberta Navello interpreta "Lady Macbeth", un apologo di Michele De Vita Conti sulla vita di coppia (con la mediazione di Shakespeare). Perché sempre l'amore lascia spazio ai rapporti di forza tra uomo e donna
Lo spettacolo Lady Macbeth, con il sottotitolo ben evocativo “Scene da un matrimonio”, in scena al Brancaccino di Roma fino a domenica è tante cose insieme. Innanzitutto, è una bella prova d’attrice di Maria Alberta Navello, riconosciuto talento del nostro teatro che qui si misura, da sola e per cinquanta minuti, con uno dei personaggi più difficili del canone shakespeariano. Poi è un gioco scenico fatto magistralmente con pochissimo (un carico di sale grosso, come vedremo alla fine). Infine, nelle pieghe del copione di Michele De Vita Conti, che cura ranche la regìa, c’è un’ipotesi di lettura del Macbeth di Shakespeare di sicuro interesse. Partiamo da qui, intanto.
La tragedia di Macbeth e sua moglie, a leggerla senza giudicarla moralisticamente (esattamente come fa Shakespeare, che mai giudica i suoi personaggi) è prima di tutto una magnifica storia d’amore. Le terribili parole dette dai due personaggi sono – fra loro – cariche di tenerezze: è tutto un cinguettare amore, tesoro e vezzeggiativi unici nel canone. Quello tra Macbeth e Lady Macbeth non è un amore carnale e scomposto come quello tra Antonio e Cleopatra, ma una passione incondizionata e totalizzante, dove i limiti dell’uno si compensano nella forza dell’altro. Perciò Lady Macbeth non è l’anima nera del marito, ma il preciso punto di bilanciamento della sua codardia. Una coppia perfetta, insomma. Ebbene, Michele De Vita Conti ipotizza che la follia di Lady Macbeth sia in realtà una cesura voluta, nella linearità del rapporto d’amore: la donna finisce per non tollerare più i limiti del marito e si stacca da lui. Non ne può più. E cede non alla pazzia, ma alla depressione; fino a cercare la morte.
Insomma, è un’ipotesi critica interessante quella da cui l’autore e regista è partito per costruire il suo spettacolo che non riporta in scena l’intreccio di Macbeth, Duncan e Banquo (l’originale di Shakespeare è una storia di uomini di potere: è significativo che la protagonista femminile, Lady Macbeth, non abbia un nome proprio, ma viva solo in funzione del marito, anche questo un unicum nel canone). A parlare, appunto, è una donna che s’è stufata del marito; una donna che prima analizza (ad uso e consumo del pubblico) la propria indole terribile, subdolamente volta a sopravvivere svuotando di vita e potere gli uomini, poi passa a biasimare la codardia del marito. “Scene da un matrimonio”, dunque, nelle quali l’eco degli omicidi, del sangue è, appunto, un rimbalzo dalla storia shakespeariana: se ne potrebbe fare a meno e la tipicità della crisi coniugale non ne soffrirebbe assolutamente.
Maria Alberta Navello, dunque, è una leonessa in una piccola, suggestiva gabbia di sale (la scenografia di Lucia Menegazzo perfettamente illuminata da Mauro Panizza prevede genialmente solo un circolo di copioso sale che si presterà a tutte le metafore visuali predisposte dal regista) che modula i suoi sentimenti dalla rabbia all’ironia, dalla violenza alla levità. Sempre tenendo inchiodato il pubblico sulla poltrona, come solo una attrice di razza sa fare.