Nicola Fano
A proposito di "Una domenica d'aprile”

Un calcio ai ricordi

Giuliano Capecelatro racconta la storia di un uomo che improvvisamente si imbatte nella memoria di sé inseguendo il mito di una partita di calcio. Quella (del 1958) quando il Napoli batté la Juventus

Una remota domenica d’aprile, il Napoli batté la Juventus: l’epica popolare di quell’evento, anzi l’epica della memoria personale di quell’evento è destinata a cambiare la vita di Ugo, il protagonista di Una domenica d’aprile, appunto, nuovo romanzo del nostro Giuliano Capecelatro (Ianieri edizioni, 303 pagine, 16 Euro). Però, per entrare meglio in questo groviglio di idee, narrazioni e parole, bisogna fare qualche specifica sulla “provenienza” dell’autore: cronista sportivo e culturale di lunga militanza, ha sempre anteposto, nei suoi articoli, il gusto della storia narrata a tutto il resto. I nostri lettori, d’altro canto, conoscono bene il suo duellare con la lingua italiana alla cui ricchezza ha sempre fatto pieno riferimento. Ebbene, se siete appassionati di sport ma vi piace guardarlo con gli occhi (un po’ snobistici?, pazienza) della filosofia (quella vera, non quella da bar), allora questo è il romanzo che fa per voi. Era il 20 aprile del 1958… potrebbe cominciare così, questo libro, e invece inizia con il protagonista – Ugo, abbiamo detto – che cerca nella testa il nome al quale la sua memoria rimarrà appesa: «Berlucchi… no, no. Ber… aspetta… Ber… Beruccio, Berucco. Ah, ecco, Bertucco. Si chiamava Bertucco». Ecco: in questa via di mezzo tra «Chiamatemi Ismaele» e «Come si chiamava, quello di cui mi avete parlato, Godet, Godim, Godot» sta la vicenda raccontata da Capecelatro.

Siamo a Napoli, evidentemente, Ugo è un uomo alle prese con il bilancio di sé (una brutta età, dovete convenire…) e per tracciarlo nel modo migliore possibile va all’inseguimento di sé bambino e poi adolescente; di sé nel tempo, insomma. Lo accompagnano una moglie, Paola, e una figlia, Betta: due donne solide, sia pure in modo diverso una dall’altra, che guardano comunque con affetto il percorso a ritroso di Ugo. Il guaio è che il nostro uomo nel corso della sua ricerca incontra il tempo sotto forma di una vera e propria Ragazza del Tempo. Perché questa è la bestia nera di quell’età dei bilanci: ci si interroga a proposito del peso del tempo, così minuto se visto lungo il filo della Storia ma così lungo se adattato al niente della vita d’un uomo. La soluzione del problema, dice Capecelatro/Ugo, è nei Quattro quartetti di Thomas S. Eliot: «Tempo presente e tempo passato / sono forse presenti nel tempo futuro, / il tempo futuro è contenuto nel tempo passato. / Se tutto il tempo è eternamente presente / tutto il tempo non è riscattabile». Il passato non è mitico e non va guardato con nostalgia: è parte di un tutto che siamo ciascuno di noi stessi.

Così, almeno, ho interpretato la vicenda che porta il nostro Ugo prima a cercare di capire perché la sua mente, un giorno qualunque, si sia fermata a ricercare i lacerti di un ricordo che pareva perduto (la partita di pallone, il tifo, i gol, la soddisfazione) poi a tentare di individuare in quel frammento di memoria un senso di sé. Arrivando a concludere che il tempo non ha tempo: qualcosa di molto simile all’affermazione latente di Beckett secondo il quale, nella vita, «il segreto è che non c’è segreto». Come dire: non è chiaro che cosa significhi essere in pace con se stessi, ma di sicuro è qualcosa che accetta come ineluttabile contemporaneamente la ricerca di quella condizione e l’impossibilità di raggiungerla.

Da segnalare, nelle pieghe del romanzo, un reticolo di memorie che l’autore chiama calcisticamente Traiettorie ma che, di fatto, nella narrazione sono ricuciture della reminiscenza di quella domenica d’aprile del 1958 in cui, bontà sua, il Napoli batté la Juventus. Traiettorie sono quelle che Ugo e il lettore compiono nei ricordi dei protagonisti, lì dove Capecelatro rimette in campo la sua stoffa di raccontatore sportivo. Ritratti o interviste a figure mitiche – loro sì – dell’infanzia di una generazione che aveva sacra la domenica soprattutto per il rito apotropaico dello stadio e di Tutto il calcio minuto per minuto. Ed ecco il gigante buono John Charles e quell’antipatico di Boniperti, Luis Vinicio e ‘o petisso Bruno Pesaola e altri ancora: miti, insomma, che l’autore tenta (con successo) di ricondurre a una normalità deprivata dall’epica fasulla del tifo ultrà. Perché poi questo, alla fin fine, è il senso di Una domenica d’aprile: il passato è importante in sé, non solo perché ci ricorda di quando eravamo adolescenti

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