Roberto Verrastro
A proposito di “Small Arms”

Bambini in armi

Mia Bloom e John Horgan analizzano i processi che portano i bambini ad arricchire gli eserciti del terrorismo internazionale. Il modo migliore per "reclutarli" e farne "martiri perfetti" è distruggere le scuole e l'istruzione

«Nella tradizione islamica, il suicidio e il martirio sono distinti l’uno dall’altro. Il suicidio (intihar) è severamente vietato nel Corano, come lo è per tutte le fedi abramitiche. Non c’è tabù più grande nell’Islam che suicidarsi», precisano Mia Bloom e John Horgan, docenti rispettivamente di studi mediorientali e di psicologia del terrorismo presso la statunitense Georgia State University, nel quinto degli otto capitoli del loro saggio Small Arms – Children and terrorism («Armi di piccolo calibro – Bambini e terrorismo», Cornell University Press, 248 pag., 26,05 euro, ebook 9,25 euro). Gli autori spiegano che in origine il martirio significava la lotta (jihad) per innalzarsi al sacro tramite atti nobili, come fronteggiare difficoltà insormontabili o proporsi per compiti estenuanti, fino a giungere a un sacrificio di se stessi diverso dal puro desiderio di infliggersi la morte e di procurarla ad altri. Una distinzione presente anche tra i Tamil dell’India e dello Sri Lanka, in gran parte induisti, che differenziano il thatkoday, o «dono del sé», l’equivalente del martirio islamico e cristiano, dal thatkolay, la parola per suicidio.

I due termini si sovrapposero il 30 ottobre del 1980, quando il tredicenne iraniano Mohammed Hossein Fahmideh, il primo attentatore suicida bambino, si lanciò contro un carro armato iracheno con una bomba a mano nascosta sotto la camicia, diventando una figura di culto dell’Islam sciita, al punto che l’ayatollah Khomeini, scomparso nel 1989, lo definì «il nostro leader». Il regime iraniano trasformò Fahmideh in un idolo, celebrandone l’immagine anche su manifesti lungo le strade principali ed emettendo un francobollo commemorativo nel 1986. «La rivoluzione iraniana esportò questa nuova interpretazione del martirio in altre parti del Medio Oriente. Dapprima la tattica si è diffusa ad altre enclave sciite in Libano e nel Kuwait, per poi estendersi tra palestinesi, iracheni e afghani. Da ultimo si è metastatizzata in quanto vediamo accadere oggi in Francia, Mali, Turchia, Iraq, Nigeria e Siria». Nel 1983, quando i marines statunitensi erano stanziati in Libano, il movimento di resistenza islamica Hezbollah unì a tradizioni religiose sciite di martirio l’innovazione dell’auto e del camion bomba.

Nel capitolo introduttivo (Cos’è un bambino?), Bloom e Horgan ricordano tuttavia che non esiste una definizione universale dell’infanzia e dell’adolescenza. In alcuni Paesi i giovani votano a 16 anni (Brasile, Cuba, Iran e Nicaragua), la stessa età che permette altrove di arruolarsi volontariamente nelle forze armate con il consenso dei genitori (Stati Uniti, Israele, Norvegia e Regno Unito). E in sette Paesi vige il servizio militare obbligatorio per ragazzi di età inferiore ai 18 anni: Afghanistan, Iran, Repubblica Democratica Popolare del Laos, Messico, Namibia, Nicaragua e Sud Africa. Nel 2000, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò due protocolli opzionali alla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia (il cui testo finale risaliva al 1989), elevando da 15 a 18 anni l’età minima per partecipare a un conflitto armato e vietando il coinvolgimento dei minori di 18 anni nei gruppi armati non statali, come quelli terroristici. La Convenzione è stata ratificata da 196 Paesi, esclusi gli Stati Uniti, che si richiamarono alle leggi di guerra per sostenere che si può combattere a 15 anni.

I bambini terroristi si distinguono dai bambini soldati soprattutto per i microprocessi di reclutamento, essenziali nell’avviamento al terrorismo. Il fallimento nel ricambio generazionale è il fattore primario di estinzione dei gruppi terroristici, «compresi gruppi europei ben consolidati, come le Brigate Rosse in Italia». Gli autori, che hanno condotto ricerche sul campo nella valle dello Swat, un fiume del Pakistan, evidenziano pertanto che «la differenza tra l’Isis o i talebani, e la Provisional Ira, il movimento separatista basco e le Brigate Rosse, è il controllo fisico del territorio, che ha permesso all’Isis e ai talebani di reclutare minori. Il controllo del territorio si è tradotto in un controllo di ospedali, orfanotrofi, scuole e curricula, e ha fornito un flusso costante di reclute». Dal 29 giugno 2014, data della proclamazione ufficiale dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria (Isis), che è molto più di un’organizzazione terroristica, il numero di attentatori suicidi preadolescenti si è incrementato anche a Wilayat Khorasan, la sua provincia afghana e pakistana, e in gruppi affiliati all’Isis come i nigeriani di Boko Haram.

Mentre l’Isis socializza a fondo i bambini, tra il 2009 e il 2015 Boko Haram (che si traduce «l’educazione occidentale», ovvero karatun boko, è haram, «islamicamente proibita») ha distrutto oltre 900 scuole e ha costretto altre 1500 a chiudere. Gli studenti, in un Paese come la Nigeria, dove nel 2010 vagavano 10,5 milioni di bambini in età scolare, vengono rapiti per unirli ai militanti, com’è accaduto nell’aprile del 2014 a 219 ragazze della città di Chibok: le studentesse molto giovani possono infiltrarsi nei mercati e nei luoghi pubblici destando meno sospetti dei coetanei maschi o degli adulti nel ruolo di martiri (shahid). Dopo avere rilevato scuole irachene e siriane, nell’anno scolastico 2015-2016 l’Isis varò invece il suo corso di studi per i bambini, alle prese con libri di matematica di questo tenore:«Se lo Stato islamico schiera 275.220 eroi in battaglia e gli infedeli 356.230, chi ha più soldati?». Da un decennio la maggior parte del reclutamento terroristico globale avviene online, dove l’Isis completa un simile indottrinamento attraverso i social network e le chat room.

La madrassa è l’istituzione educativa islamica predominante dall’XI secolo. Il sistema di madrasse del Pakistan, specialmente lungo il confine con l’Afghanistan, ha dato origine al movimento dei talebani («gli studenti»). Questi ultimi nella valle dello Swat reclutavano un figlio da ogni famiglia impossibilitata a pagare in denaro una tassa esorbitante, coincidente con il doppio del suo reddito annuale, che essi riscuotevano porta a porta minacciando di portare via tutti i figli, mediamente sette, ai poveri che si fossero rifiutati di sacrificarne almeno uno. Talvolta i talebani pakistani si presentavano ai genitori come un gruppo disciplinato in grado di risolvere i problemi di tossicodipendenza dei figli, e di garantire loro un tetto e i pasti in una madrassa. Ma i ragazzi catturati in seguito dall’esercito pakistano ricadevano in una dipendenza peggiore della precedente, potenziando l’hashish con la coda degli scorpioni essiccati dal sole, che è velenosa (una pratica abituale nella regione), e dandosi alla criminalità comune. Un ciclo infinito di violenza che, sostengono Bloom e Horgan nel settimo capitolo del libro (Lasciarsi il terrorismo alle spalle), potrà essere interrotto solo studiando a fondo le testimonianze dei bambini che sono riusciti a fuggire dai gruppi terroristici, per individuare le vie adatte al loro reinserimento sociale.

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