I racconti di Zdravka Evtimova
Sulla linea di confine
La scrittrice bulgara, con “La donna che mangiava poesie”, si situa su quel versante della letteratura da cui osservare la solitudine del mondo e la perdita di innocenza in nome del mito del Progresso Evocando così, per consonanza, pagine di illustri predecessori
Lunga vita alle piccole case editrici che nonostante le crisi del settore, e gli imperativi di mode e tendenze, non di rado con coraggio e perseveranza ci rendono possibile l’incontro con autori e opere letterarie che hanno ancora la forza di sorprenderci, come la visione improvvisa di un fiore raro. È il caso dell’editore BESAmuci, che ha dato alle stampe una raccolta di racconti di Zdravka Evtimova (nella foto sotto), scrittrice e traduttrice nata nel 1959 in Bulgaria, dove vive e lavora. La donna che mangiava poesie (pagine, 15 euro), è questo il suggestivo titolo italiano della raccolta curata da Clara Nubile, si compone di undici storie indipendenti che, per la potenza dello stile descrittivo, in sapiente equilibrio tra verismo e surrealismo, e la densità drammatica con cui vengono rappresentati sentimenti e ambienti, attraverso il punto di vista straniante dei personaggi (quasi sempre vinti, refusés della vita), si incidono nella mente del lettore nella forma di un affresco crudele della commedia umana.
Il nucleo centrale dell’opera può essere individuato nei due racconti che aprono e concludono la raccolta. Nel primo (La gabbia degli uccelli), una giovane donna torna temporaneamente nel miserabile paesino rurale da cui era fuggita, riassaporando in poche ore di amore selvaggio con un antico compagno di infanzia il gusto di una libertà primitiva che le scorre nel sangue, prima di ripartire per la città dove la attendono le nozze con un signore molto ricco e una comoda e noiosa esistenza da mantenuta. Nel racconto conclusivo (l’unico della serie ambientato tra Bruxelles e le Fiandre piuttosto che in terra bulgara), intitolato Pioggia, François, insoddisfatto di una vita anonima e grigia, abbandona di soppiatto la compagna e il suo cane per rifarsi una vita migliore in un’altra città, ma un giorno, spinto da una inspiegabile nostalgia, torna sui suoi passi per rivedere, da straniero, il cortile chiazzato di pozzanghere e gli affetti che aveva lasciato, scoprendo che ciò da cui era fuggito non era altro che l’amore felice che non aveva saputo riconoscere.
In queste due scene madri che incorniciano la raccolta possiamo dunque individuare i temi di fondo che alimentano come una corrente sotterranea la modalità di racconto della Evtimova: la solitudine immedicabile che sovrasta come un’ombra la vita e il destino umano; la fuga e il sogno di un improbabile ritorno; l’attrazione di cieli sfuggenti e le miserie del sottosuolo; il candore e il fango di cui ogni esistenza è incrostata; la voglia di integrazione che conduce fatalmente a una emarginazione più fonda, non dissimile da una gabbia di uccelli. Il paesaggio prevalente delle storie è quello dei piccoli remoti villaggi contadini bulgari, con case fatiscenti per troppa memoria e incuria, circondate da grumi di alberi e sterpi. Un ambiente primitivo descritto con crudo lirismo, che però vediamo oscuramente dilatarsi oltre la cornice di un piccolo mondo in apparenza circoscritto dalla Storia, fino a espandersi con millimetrica tenacia di rampicante ai bordi delle metropoli e delle città moderne, infiltrando le sue spore velenose anche nei quartieri e nei lussuosi interni dove un benessere apparente si ostina a fare bella mostra di sé, nel disamore.
Una sorta di contrappasso infernale, si direbbe, a cui paiono predestinati, come bestie inconsapevoli condotte al macello, coloro che nell’ordine caotico della civiltà moderna rinnegano le radici, pur di raggiungere una medietà borghese, barattando il sogno di elevazione sociale con il rimpianto, il senso di colpa, e una lenta discesa, irta di inciampi, per ogni sconfinato gradino dell’abiezione morale. In compenso, le frequenti evocazioni in queste pagine di versi celebri, di consacrati autori della poesia bulgara e di classici universali, lasciano accesa una flebile speranza (una fede) nel potere magico-sacrale e civile della Poesia, ultimo baluardo contro la degradazione e la barbarie. Così la protagonista di Boris, o gli alberi di castagno, con la testa sempre tra le nuvole, intenta a dilapidare tempo e talenti nella traduzione di un libro «con due milioni di esplosioni e scene di sesso bollente in bulgaro» viene bruscamente rimbrottata da nonna Dora che la invita a leggere piuttosto le opere di Singer («Era uno di noi, mica spazzatura come i tuoi libri»). E la maestra del racconto eponimo, immersa in un amore romantico per un giovane poeta ancora sconosciuto, reagisce al tradimento di questi, che la lascia per un’altra donna e la gloria da rincorrere in una grande città, fagocitando per cena le carte autografe con i versi dell’amato (quasi una versione aggiornata e moderna del motivo medioevale del “cuore mangiato”), cercando nella poesia un attaccamento estremo alla vita e ai suoi bisogni primari: il cibo, l’amore e il suo rovescio, l’odio…
Ma neppure la più alta Poesia può opporre antidoti sufficienti all’egoismo e all’aridità interiore. Ecco dunque che i versi immortali di Goethe e Schiller affiorano come una cantilena svogliata dalle labbra della giovane protagonista de La bicicletta, costretta dalle intimazioni e i ricatti della arcigna compagna della madre a impararne intere strofe a memoria per evitare di dover nuotare nel lago un’ora in più; né tantomeno quei versi solenni impediranno alla singolare famiglia della ragazza di implodere e disgregarsi sotto il peso dell’insincerità e della menzogna. Insomma, quando valori sacri, condivisi, vengono sacrificati sugli altari di falsi miti di facciata, nulla può più essere salvato. Ecco perché dalla lettura di questi racconti si riemerge attoniti e smarriti, come chi è sopravvissuto a un disastro, dopo aver contemplato un deserto affollato di solitudini, di inaridimento, là dove un tempo scorrevano le fertili acque di una vita comunitaria.
Nella sua tensione drammatica, sorprendentemente anacronistica e al contempo immersa nelle contraddizioni del nostro tempo, la scrittura narrativa di Evtimova sembra situarsi nelle coordinate di un parallelo letterario a se stante, contrassegnato da una modalità epica e melodrammatica di narrare il tragico quotidiano, in un miscuglio grandioso di sentimenti forti, pulsioni arcaiche e atavismo emergente da profondità insondabili, in cui la voce cruda e sensuale dell’autrice bulgara si confonde con folgoranti consonanze a quelle di Garcia Marquez e delle dostoevskjiane Memorie del sottosuolo; di Grazia Deledda; e di Fernando Abreu; del Testori del Ponte della Ghisolfa, e altri narratori che hanno fatto della letteratura una linea di confine da cui osservare appartati la solitudine creaturale del mondo, la sua perdita di innocenza dietro la parvenza dello sviluppo incessante e del sempreverde mito del Progresso.