Danilo Maestosi
Al museo di palazzo Merulana di Roma

Sidival e il sacro

Non perdetevi la mostra di Sidival Fila, il frate francescano brasiliano che riscopre la sacralità dell'arte attraverso l'uso della materia. Che sia quella di un vecchio saio o quella di un'antica pergamena religiosa

Trovare il proprio segno. Per ogni artista è un rito d’iniziazione, un passaggio obbligato per dare un senso e una direzione alla propria creatività. Sidival Fila, brasiliano, 55 anni, una giovanile passione artistica abbandonata per 18 anni per inseguire una vocazione religiosa e prendere i voti come frate francescano e poi riaffiorata a Roma nel monastero di San Bonaventura sul Palatino dove ora vive e lavora, il suo segno l’ha scoperto – racconta – quasi per caso, mentre rammendava un vecchio saio. La stoffa come una tela. L’ago come la punta di una matita o di un pennello. Il filo, quel filo bianco che usava, come la traccia del salto verso un’altra dimensione dello spazio. E infine la materia come un coagulo del tempo, una lavagna sensibile come una lastra fotografica, capace di trattenere e rappresentare, o almeno suggerire, lo scorrere stesso della vita, le orme delle cose e dell’uomo che immerso nello stesso flusso d’esistenza ci convive e le interroga. E ieri come oggi continua a domandarsi: chi sono, da dove vengo, perché? Una catena di rivelazioni e passaggi concettuali che gli si è ricomposta nell’anima a poco a poco, sigillando finalmente nella contemporaneità la sua aspirazione di artista e la sua spiritualità. Undici anni fa la prima mostra, premiata da un’attenzione e da un successo che gli ha spalancato le porte della ribalta internazionale. Facendo di Sidival Fila un caso e un modello che ha fatto irruzione sulla scena proprio mentre nella Chiesa e in Vaticano ci si interrogava su come riallacciare il dialogo tra arte e sacralità, superando i canoni rigorosamente figurativi della tradizione. Quale spiraglio migliore di quello aperto da questo frate francescano con le trame astratte dei suoi lavori?

Sostenuta da queste premesse prende davvero spessore da evento la mostra, in cartellone fino al 5 ottobre, con cui, scantonando dal suo abituale copione espositivo, il museo di palazzo Merulana richiama in campo a Roma Sidival Fila, invitandolo a misurarsi con i limiti dello spazio e le suggestioni della collezione di taglio quasi esclusivamente figurativo, messa su dalla famiglia Cerasi ed ospitata in questo edificio. Una sfida che frate Sidival ha raccolto con un campionario di opere studiate per l’occasione.

Di grande impatto le tre istallazioni nella sala delle sculture al pianterreno. Ma i lavori che mi hanno più colpito sono le tre grandi tele esposte al secondo piano, accanto agli splendidi quadri metà Novecento della collezione. Una, in particolare, cattura lo sguardo: è un gigantesco pannello di juta composto con ritagli vecchi di oltre due secoli, che riprende le tonalità e i riflessi ambrati degli sfondi di due nudi di Fausto Pirandello. Un prezioso esempio della modalità di riuso che segna come un marchio inconfondibile d’autore la sua creatività. Perché strappa a quei lembi sovrapposti di sacchi le parole i significati invisibili che col tempo hanno trattenuto. Trasformandole in vibrazioni di raccoglimento e di mistero. Mistero quelle macchie che emergono come ombre di vita vissuta sul tessuto, un mistero quelle lacerazioni, quelle pieghe che increspano la superficie , un mistero i contrasti creati dalle nuove cuciture, che spiccano nel loro inquietante candore, spingono aldilà lo sguardo di chi osserva. Segni astratti che raccontano e raccolgono come echi storie di corpi, intrecci di bene e male, forza e fragilità, non diversi da quelli di Pirandello.

«La materia svelata», spiega con grande efficacia il titolo imposto alla mostra, che prosegue e si conclude al secondo piano con un siparietto a bassa voce ma grande intensità visiva di piccoli assemblaggi di carta, incastonate alle cornici di legno da reticoli di fili bianchi. Sono pagine di vecchi libri, recuperate chissà in quale biblioteca di convento, e ricomposte con molta libertà. Trattati religiosi, vocabolari latini, testi di preghiera riciclati con sovrapposizioni, stralci mirati, cancellazioni come relitti di un uso abbandonato e ora reinventato, che qui inseguono un altro mistero, altre risonanze, quelle della parola. Più che voci sussurri che vibrano da sfondi accartocciati, ingialliti, coperti di macchie, fino a smarginare, a volte sulle cornici in marchi ed icone stampati sul legno ad indicare un gioco di rimandi mobili, di infinite possibilità di decifrazione.

Anche frate Sidival come ogni artista non è esente da peccato. Un tarlo, forse di superbia, che affiora quando quel suo moto continuo di cucire e scucire perde spinta di verità e si trasforma in ricamo. Da creazione a decorazione.

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