Cronache infedeli
Quell’11 settembre
Fiori per i morti e fiori per i vivi. In una chiesa qualunque, a un’ora qualunque, il sindaco Giuliani accompagna una sposa all’altare. E l’abbraccio alla nuova famiglia vuol dire: la vita non si arrende. Frammenti di memoria di quel giorno di 18 anni fa
Uno sconosciuto, vicino, a me, gli occhi fissi sul cratere: “Sembra una chiesa, la cattedrale di Coventry, le sue rovine. Dovrebbero lasciarla così, lasciare quello che resta…” Bisogna venire nel buio, scendere dalla metropolitana a Fulton, camminare tra Liberty e Church, per capire l’angoscia di New York. I grandi edifici oscurati incombono su strade deserte, quello che fu lo scintillante quartiere degli affari è un cantiere fangoso e pieno di ombre, spazzato dai fasci di luce delle fotoelettriche.
Una donna distoglie lo sguardo: “Quelle torri bellissime, come avrei potuto immaginare di vederle crollare davanti a me? Anche quando ho visto il fuoco e il fumo non pensavo che sarebbe stato così terribile.” Gli occhi di tutti sono puntati lì, verso la voragine che si può soltanto intuire, la montagna di detriti dove scavano le grandi macchine e frugano in silenzio centinaia di uomini.
Davanti a me, illuminato dai riflettori, ecco quello che rimane delle Torri. Un grande vuoto e una struttura contorta che punta verso il cielo polveroso. Un monumento tragico che la gente si ferma a contemplare in silenzio. Le squadre si danno il cambio, le barriere si aprono solo per i mezzi di soccorso. Le cifre: dispersi 5422, cadaveri recuperati 218, corpi identificati 150. Ed è come una veglia funebre il silenzio spesso della gente. “Ce lo porteremo sempre con noi, non lo potremo mai dimenticare”.
Claudia Castano cerca il fratello Alejandro, che lavorava nella seconda torre. Dice, quasi a se stessa: “cercate nel tunnel, tanti sono scesi nei tunnel sotterranei, dopo l’esplosione.” L’America vive, lungo la West Side Higway, dove corrono a sirene spiegate i camion delle squadre di soccorso, la gente applaude, piange, canta, e vorrebbe abbracciare questi uomini schiantati dalla fatica. L’America vive, ma non vive Alejandro Castano, detto Alex, e non vive Steven Morello, di cui resta una foto che stringe il cuore, incollata a una vetrina e già sbiancata dal sole.
Fiori per i morti e fiori per i vivi. In una chiesa qualunque, a un’ora qualunque, il sindaco Giuliani accompagna una sposa all’altare. E l’abbraccio alla nuova famiglia vuol dire: la vita non si arrende ed è più forte della morte. Ma la normalità non è sufficiente dichiararla. Ancora oggi tutta la vita e le emozioni si addensano intorno al cratere trasformato in una enorme fossa comune. Il mondo, quel mondo che l’America era abituata a vedere sugli schermi televisivi come si osserva la terra da una silente navicella cosmica, è crollato addosso alla sfolgorante capitale del pianeta.
Da una settimana nessuno viene estratto vivo dalle macerie. Per le famiglie dei dispersi, questa è la fine delle speranze. Viste da qui, da questo piano basso della vita e della morte quotidiana, le notizie sulle indagini, sulla guerra invocata e preparata, appaiono pallide voci senza significato. Più forte, forte in modo insopportabile, è il tanfo di decomposizione che ristagna in questa lingua di terra verso le acque color piombo, il fiume increspato dai primi venti autunnali. Infine crolla, spinta dalle grandi macchine, anche la parete di metallo e cemento alta sei piani, quello che restava delle torri polverizzate, l’incredibile monumento al dolore rimasto a svettare contro il cielo per due intere settimane. Nessun nuovo sacrario innalzato in una nuova Manhattan, potrà avere la forza di questo relitto che ritorna polvere e si consuma al suolo sotto i nostri occhi.
Torno a casa, downtown, attraversando Union Square. Anche qui, ai margini del piccolo parco, le bandiere e le foto ingiallite delle vittime di Ground Zero, ragazzi che accendono candele, pregano e cantano. Intorno, il traffico caotico e indifferente del pomeriggio che si fa sera. Questa è la mia New York, anno primo del terzo millennio.