Pier Mario Fasanotti
A proposito di "Calcionomia”

La bibbia del calcio

Il Saggiatore manda in libreria un ricco saggio di Simon Kuper e Stefan Szymanski sui meccanismi economici che governano il mondo del calcio. E si scopre che raramente i campioni rendono quello che costano. E non solo...

Olé, il campionato di calcio è cominciato. Con i verbosissimi cascami televisivi. Una pausa benedetta dopo tanta intossicazione politica propinata questa estate dai talk-show. Una vetrina, quella sportiva (ma non solo, va pure detto) dove sono in mostra competenze, retorica, narcisismo, grida e (ahinoi) feroci attentati al congiuntivo.

Il Saggiatore in questi giorni ha mandato in libreria un librone di 477 pagine (28 euro) che si presenta come una bibbia del pallone. S’intitola Calcionomia, gli autori sono un giornalista e un docente universitario, Simon Kuper e Stefan Szymanski. Ampia ed esatta documentazione, attacco a molti luoghi comuni, elenchi di successi e di perdite e alcune curiosità. A proposito di bizzarrie, si racconta che un grosso club inglese notò che i suoi osservatori, quando guardavano le gare delle squadre giovanili, spesso raccomandavano i giocatori biondi. Spiegazione: risaltano più degli altri, il colore salta all’occhio prima ancora della sua abilità in campo. Questo ovviamente non vale per i paesi scandinavi. Un esperto s’accorse che i talent scout degli Athletics avevano un sacco di «pregiudizi visivi» e non degnavano d’uno sguardo i grassottelli, i magrolini e i «lanciatori bassi e destrimani». La bravura e la straordinaria abilità del goleador argentino Lionel Messi (che è anche un grande evasore fiscale) è la più lampante smentita. Ovviamente non è regola generale, diciamo noi, vista l’ondata a volte felice a volte no dei brasiliani. E, ma ormai tempo fa, degli olandesi. Alcuni psicologi mettono in guardia sui cosiddetti “errori di sistema” e affermano che questi «non sono semplici errori individuali bensì deviazioni dalla razionalità». Ovviamente chi è consapevole di certe trappole (anche mediatiche) sa meglio districarsi nel mercato dei due piedi.

Oggi i campioni costano moltissimo. Non pochi gridano a operazioni immorali. Quando nel 2014 il Brasile organizzò i mondiali di calcio, sperperando milioni di dollari di spesa, ci furono delle manifestazioni di protesta. Alcuni cartelloni portavano questa scritta: «Un insegnante vale più di Neymar». Questo “fenomeno” del dribbling è indubbiamente il più ricco tra i ricchi: è pagato 3,5 milioni di dollari al mese (gioca al Psg di Parigi ed è corteggiato da molti, spagnoli in testa). I francesi per averlo sborsarono ben 222 milioni di dollari. Non sempre l’enormità degli stipendi vale la candela. Nel 1983 il Milan volle Luther Blissett, attaccante di colore del Watford (sobborgo di Londra). Un milione di sterline per uno che si rivelò essere un bidone. Nota a margine: Blissett diventò lo pseudonimo di un gruppo di scrittori anarcoidi italiani. La Fifa, organo internazionale che regola i trasferimenti, calcola che nella sola estate del 2017 i club di tutto il mondo hanno speso 4.71 miliardi di dollari (quasi 4 milioni di euro).

È dimostrato (ovviamente dagli esperti) che l’importo netto che una società spende sul mercato non è direttamente proporzionale con la posizione in classifica di una società calcistica. Gli autori di Calciomania citano a esempio il Newcastle. E ancora: l’esborso netto (ovverossia tutti gli acquisti meno tutte le cessioni) spiega solo il 16% della loro posizione in classifica. Dicono gli autori di questo libro: «Gli stipendi alti non causano le buone prestazioni; semmai attirano ottimi giocatori». Tutto da dimostrare poi che costoro continuino a essere dei fuoriclasse. La mia memoria aggiunge il caso di Marco Verratti, centrocampista all’inizio snobbato dagli italiani e ora tra i più forti mediani europei. Gioca al Psg di Parigi e nella nazionale azzurra.

Il Financial Times, che ha esaminato 69 club europei dal 2011 al 2015, è giunto alla conclusione che è l’Atletico Madrid la società più oculata e intelligente nelle spese. La squadra iberica, tra l’altro, ottiene ottime prestazioni in campo. Tra le peggiori: Milan, Inter, Chelsea, Queen Park Rangers. Agli ultimi posti il blasonato Real Madrid e il Paris Saint-Germain (Psg). C’è da dire però che raramente un club fallisce: è una sorta di banca che riesce a barcamenarsi anche in acque finanziariamente agitate. Non vogliamo pensare, ma forse sarebbe oggetto di indagini, a probabili versamenti di denaro sporco, da riciclare. Una buona parte di colpa dev’essere attribuita agli allenatori: un “mister” appena ingaggiato vuole mettere il proprio marchio sulla sua nuova squadra e preme perché la società compri quel che lui vuole. Poi deve “ripulire” la squadra dagli acquisti del suo predecessore, di solito rivendendoli a prezzi un po’ troppo scontati. E non è affatto detto, a questo proposito, che l’allenatore, chiamato anche «l’uomo bianco in panchina», sia il perno vero del successo. Gli autori di Calcionomia fanno un elenco di ottimi allenatori che per una ragione o per un’altra sono rimasti incatenati in club di scarso conto.

Il calcio è fonte di felicità popolare e può essere, per una città o un Paese, elemento di forte unità o identità. La storia registra fatti a dir poco inconsueti. Venne studiato il comportamento di 29 città americane nella settimana successiva all’assassinio del presidente John Kennedy. Ebbene, non fu riscontrato alcun suicidio. Era periodo di lutto. Allo stesso modo nei giorni che fecero seguito all’attentato alle Torri Gemelle (11 settembre 2001), le chiamate al centralino “antisuicidi” furono soltanto 300. I suicidi in Gran Bretagna si dimezzarono dopo la morte di Lady D.

Si deve altresì sfatare il mito di grandi guadagni da parte di città che ospitano i campionati mondiali di calcio. Se non parliamo di disastro, ci manca poco. Atene, la cui nazionale fu campione europea nel 2004, fu teatro internazionale nel 2006: le spese pazze si ripercossero nella crisi nera che il paese soffrì con la conseguenza di dover accettare il diktat dell’Europa (Germania in testa) che impose un’austerity ferocissima. A questo proposito aggiungerei una nota che nulla ha a che fare con il calcio, ma è scandalosamente dolorosa: dal 2008 a qualche tempo fa è stato monitorato uno spaventevole aumento di morti infantili (su questo c’è stata sia censura che autocensura, che è sempre una brutta cosa).

Nel 2012 nel bel mezzo di Brasilia, si stava ultimando uno stadio da 70 mila posti in vista dei campionati mondiali del ’14. Pochi mesi dopo la Coppa veniva già usato come deposito di autobus e nel ’17 venne concesso ai club locali senza un soldo di affitto (le foto si riferiscono proprio al nuovo Maracanà abbandonato). Se l’avessero abbattuto, il Brasile avrebbe risparmiato 200 mila dollari al mese, cifra necessaria per mantenimento. Quell’inutile palazzo bianco costò 90 milioni di dollari, tre volte quanto previsto, diventando lo stadio più costoso nella storia del calcio, secondo solo al nuovo Wembley (tempio del calcio, a Londra). Il paese sudamericano spese moltissimo: doveva fare bella figura. Ma una buona quota dei soldi volò oltre i confini nazionali. Una parte della popolazione compromise l’atmosfera carnevalesca (e la polizia intervenne massicciamente) con manifestazioni di protesta: «Abbiamo costruito stadi di livello mondiale, ma dobbiamo costruire tutto il Paese intorno». Ogni volta che una città o una regione anela alla candidatura dei Mondiali, ripete la stessa frase: «Sarà un toccasana per la nostra economia». Balle. Si aspettano milioni di turisti. I milioni non sono poi milioni, e le migliaia che arrivano non vanno certo a scoprire monumenti e mostre. Numerosi poi disertano i ristoranti, preferendo food street o panini portati da casa. Eppure l’asta per assicurarsi i Mondiali anche del 2018 e del ’22, è stata, dicono gli autori di questo libro, «la più sanguinosa di sempre». La Russia non ha fatto eccezione. Ma allora perché il rapporto tra dare e avere pare conti come un due di picche? E il problema della “sostenibilità” dove lo mettiamo? Una delle giustificazioni più attendibili sta nel prestigio, nella visibilità internazionale. Una ragione che potrebbe definirsi non economica ma affettiva. C’è da sperare che l’esultanza italiana per l’assegnazione dei giochi invernali del 2026 a Milano e Cortina non si tramuti in mea culpa. Oltretutto quelle Alpi che faranno da sfondo e cornice della manifestazione sono un patrimonio artistico mondiale.

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