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Il femminicidio della contessa Giulia
Monica Guerritore ricostruisce, lavorando «sulla percezione sottile delle cose», la vicenda di una donna che non sapeva dire di no, nella Roma inizio Novecento. Maurizio de Giovanni conferma la sua arte narrativa mentre la prosa del poeta Maarouf è secca e dolorosa anche quando tende (forse involontariamente) al comico
Napoli – Diciamolo francamente: il genere giallo dilaga in Italia, ma raramente i romanzi, o i racconti, sono degni dell’appellativo “letteratura“. Chi ha letto le opere di Leonardo Sciascia è destinato a rimanere deluso. Fa eccezione l’ultimo libro di Maurizio de Giovanni, autore di Dodici rose a Settembre (Sellerio, 270 pagine, 14 euro). Prima di entrare nel nucleo poliziesco si deve arrivare a circa pagina 80. E prima? C’è la descrizione della protagonista, l’assistente sociale Gelsomina Settembre, ostinata ma anche fragile, dedita al lavoro in un ambiente terribile quali sono i quartieri spagnoli di Napoli, colpiti da miseria, ignoranza e degrado sociale. La Settembre è belloccia, ma ha il complesso del seno troppo grande (e qui l’autore entra nel tratto comico). Le si presenta una bambina di undici anni che fa capire che suo padre è uno che picchia, è un dominatore criminale. Nel frattempo accadono vari ammazzamenti: il filo rosso che li tiene insieme è l’abitudine del killer di mandare alle vittime una rosa. Una per volta. Gelsomina dà tutta se stessa per salvare la bimba, e pure la madre. Burrascoso lieto fine. L’assistente sociale è perennemente preoccupata di dover affrontare una Gdm (acronimo di “giornata di merda“) e al contempo si tiene lontano da pulsioni sessuali e sentimentali. Un esempio di bella scrittura: «La donna viveva questa situazione, in quell’indicibile sottobosco senza luce e senz’aria, con gli antichi palazzi che incombevano su quelle viuzze disperate, come una personale, terribile sconfitta. Le sembrava di svuotare il mare con un bicchiere, ma non avrebbe mai ceduto alla stanchezza».
Palermo – Giulia Trigona, dama di corte della regina Elena di Savoia e moglie del conte Romualdo dei principi di Trigona, seduta a una scrivania del Quirinale scrive una lettera d’addio al suo amante, il tenente di cavalleria Vincenzo Paternò. Ma cede al desiderio dell’ufficiale, uno spiantato, che vuole riabbracciarla. L’incontro avviene in una pensione modestissima e sporca. Siamo nel marzo del 1911. Prigioniero di una foga assassina, Paternò pugnala a morte la contessa, subito dopo si spara ma non muore: al processo (Roma 1912) si presenterà con il volto sfigurato, attorniato da uomini in divisa, attenti a difendere l’onore delle Forze Armate. Di questo famoso femminicidio si occupa con gradevole sapienza l’attrice Monica Guerritore col libro Quel che so di lei (Longanesi, 156 pagine, 16 euro). Giulia entra in quella pensione con due lettere, che saranno consegnate a Giovanni Giolitti. Si sa che la lettera scritta dal Quirinale era indirizzata “presso Principi di Lampedusa, via Donnafugata, Palermo”. Aleggia l’ombra di Giuseppe Tomasi e del suo Gattopardo. La Guerritore vuole entrare in Giulia «nella sua testa, immaginare il suo pensiero, gli scarti che l’hanno fatta deviare», lavorando, come ha sempre fatto in teatro, «sulla percezione sottile delle cose». E ha l’occasione di parlare di altre vittime di uomini ottusi e/o violenti, come Emma Bovary e Carmen. Mirabile la sua interpretazione di Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman (regia di Gabriele Lavia, suo primo marito). Tornando a Giulia, entra in gioco il tradimento del coniuge con un’attricetta. Giulia, si sente sola, ma intende vivere con interezza, con sensualità, con amore. Quando decide di troncare la relazione non sa dire di no. La Guerritore descrive le donne che non sanno dire di no, che non sanno pensare a se stesse. Argomento quanto mai attuale, scritto con sobrietà e maestria.
Beirut – Quattordici straordinari racconti di un poeta libanese di origine palestinese, Mazen Maarouf (Barzellette per miliziani, Sellerio, 150 pagine, 15 euro). L’autore fa ricorso a una prosa essenziale, secca, dolorosa anche quando, involontariamente, vira al comico. Pare che Maarouf abbia in mano una telecamera: si susseguono immagini, alcune assurde e tragiche in una Beirut assediata e bombardata, dove tutto è precario, dove l’abitudine alla morte o alla disgrazia è il leit motiv di qualsiasi giornata. Nel racconto intitolato Grammofono si narra di un uomo che in un bar senza sedie aziona un vecchio grammofono del ‘900, modello Berliner. Quello il suo lavoro. Talvolta gira troppo velocemente la manovella quando sente scoppi vicini. Un giorno una bomba termobarica cade sul locale, distruggendolo. L’uomo, dato prima per morto, è vivo ma senza più braccia. A casa cade in depressione, continua a guardare le braccia degli altri, che considera un privilegio. Il figlio (l’io narrante) nasconde per 23 anni la manovella del vecchio grammofono. Un giorno il padre, dopo aver visto un servizio tv, chiede al figlio un suo braccio: è possibile, sostiene, trapiantarlo. Non avverrà mai. Il ragazzo, di ritorno da Parigi, piazza sul comodino del padre un carillon con una manovella. L’uomo lentamente muore, felice di avere quell’aggeggio magico accanto a sé.