Pierpaolo Loffreda
Viaggio nel cuore di una realtà-simbolo/3

L’alba dell’uomo

Omotici, nilotici e cuscitici: sono le tre famiglie di popoli che abitano la Valle dell'Omo, in Etiopia. Vale a dire il luogo nel quale l'uomo è nato due volte: prima con Lucy, e poi con i nostri nonni Homo Sapiens. Viaggio tra questi uomini che incarnano la nostra storia

C’è un curioso paradosso che aleggia sulle nostre origini: noi umani (stando alle scoperte attuali) siamo nati due volte, sempre nel continente africano, ed entrambe le volte siamo nati in Etiopia. La prima volta come ominidi, circa 5-6 milioni di anni fa: l’Australopitecus Afarensis, nostro più antico progenitore, distintosi allora dall’antenato che abbiamo in commune con gli scimpanzé, viveva nella valle dell’Auasc, Etiopia nord-orientale, appena a sud della Dancalia: una regione splendida e misteriosa. Lucy (nella foto), ad esempio, ha 3,2 milioni di anni, ed è stata scoperta nel 1974, quindi dopo l’uscita del testo fondamentale di Desmond Morris, La scimmia nuda, del 1967, che riguarda le origini di tutti noi. Altri fossili incompleti di ominidi, della stessa specie di Lucy, datati 4 milioni di anni fa, sono stati rintracciati nella stessa zona dell’Etiopia, come i resti di Homo Habilis, di 2,3 milioni di anni fa, e quelli di Homo Erectus, di 1,5 milioni di anni fa (tutto ciò è ben documentato, qui, al Museo Nazionale di Addis Abeba). Ma la nostra seconda nascita è molto più recente, e ci interessa e ci affascina di più, perché Homo Sapiens siamo tutti noi, anche oggi, abitanti umani del pianeta. L’unica razza umana in circolazione da almeno 40.000 anni (cioè da quando abbiamo sgominato, e in parte assimilato geneticamente, i cosiddetti neanderthaliani).

I resti più antichi di Homo Sapiens, scientificamente accertati, sono di 195.000 anni fa. Sono stati trovati nel 1967 nei pressi di Kibish, nella valle dell’Omo, a ovest del grande fiume (dove ora vivono i Surma), e sono stati datati con certezza nel 2005. Altri reperti, e anche manufatti, dei nostri antichi trisavoli sono stati rinvenuti nella parte terminale della valle dell’Omo (nei pressi dell’attuale villaggio Hamer di Fedgege), e lungo le sponde del Lago Turkana, dove sfocia il fiume. Ora, in questa area ristretta e feconda, dal clima meraviglioso e dai paesaggi unici, con-vivono (sia pure con continui micro-conflitti) 16 popoli diversi fra loro, ma tutti liberi, indipendenti, fieri delle proprie tradizioni culturali, che coltivano quasi immutate da tempo immemorabile. I popoli in questione possono essere classificati, un po’ schematicamente (purtroppo le pubblicazioni sull’argomento scarseggiano ancora, in tutto il mondo, e sono completamente assenti in Italia), in 3 macrogruppi, caratterizzati da affinità culturali e linguistiche (cioè etniche): gli omotici, i nilotici e i cuscitici.

I popoli cuscitici: Dassanech (o Galeb), Arbore, e Tsemay, sono arrivati, presumibilmente, nella valle dell’Omo con le grandi migrazioni del XVI secolo, provenendo dal sud, come gli Oromo (fra i quali i Borana dell’area di Yabello e i Konso dell’omonima regione: entrambe zone confinanti con la valle dell’Omo). Sono prevalentemente pastori nomadi. Hanno una vita sociale chiusa, costrittiva. Praticano le mutilazioni sessuali femminili (in alcuni casi con una ritualità brutale, come avviene fra gli Arbore, che mutilano le loro donne da adulte, il giorno del matrimonio, dopo che lo sposo ha avuto il primo rapporto sessuale con loro). Le donne, fra l’altro, non hanno nessuna possibilità di scelta, se non quella di essere sottomesse, prima al padre e quindi al marito. Il divorzio è proibito, a meno che non si verifichino violenze feroci (accertate pubblicamente) o ubriachezza patologica da parte del marito. Sono, generalmente, aggressivi, anche se alcuni di loro (gli Tsemay, che sono diventati prevalentemente coltivatori) hanno molto attenuato tale atteggiamento, e ora vivono in pacifica vicinanza con i Banna, popolo dalle attitudini del tutto opposte.

Nello specifico i Dassanech sono il popolo più rappresentativo e numeroso di questo gruppo etnico. Sono circa 65.000, e vivono di pastorizia e in modo nomade in un territorio inospitale: a ridosso delle sponde settentrionali del Lago Turkana (fra l’Etiopia e il Kenya), alle foci del fiume Omo, dove praticano anche abbondantemente la pesca (il loro pesce viene venduto fino ad Addis Abeba, e hanno anche uno stabilimento per la lavorazione, conservazione ed essicazione della tilapia e del persico del Nilo) e la caccia ai coccodrilli. Sono divisi in otto clan principali, ognuno dei quali ha un suo territorio (mobile), modi di vivere, e autorità sui propri componenti. La loro è una società chiusa, patriarcale e sessuofobica (le donne lavorano molto duramente, mentre agli uomini è richiesto solo di badare al bestiame e fare i guerrieri, quando occorre), dove contano moltissimo la sofferenza e l’orgoglio. Il rito di passaggio per i maschi, la circoncisione, viene effettuato molto tardi, a 16-18 anni (quando i ragazzi sono già adulti) e in pubblico. Si tratta di una prova durissima e cruenta. Il giovane viene sottoposto, di fronte a tutti e senza alcun analgesico, a circa 40 minuti di tagli sulla superficie estrema del pene, prima con lamette, e poi col coltello.  Deve affrontare stoicamente il dolore e la vergogna, sorridendo. Chi piange o urla viene considerato indegno di essere uomo, e viene escluso, come un reietto, dalla vita civile del villaggio e di tutto il suo clan. Anche le ragazze vengono tutte mutilate sessualmente, prima della pubertà. I matrimoni sono combinati dalle famiglie, e restano indissolubili per sempre. Qualsiasi rapporto sessuale prima del matrimonio è proibito, così come qualsiasi relazione extramatrimoniale. Anche gli incontri rituali di danze fra i giovani (che si tengono solo una volta all’anno) si svolgono senza che ragazzi e ragazze possano avvicinarsi troppo l’uno all’altra, e sono i maschi a scegliere (“marchiare”) le femmine che, idealmente, preferiscono. Non hanno divinità, ma solo il culto per gli antenati, che ritengono possano animare, col loro spirito immortale, animali, piante, eventi naturali.

I popoli nilotici: Surma, Mursi, Bodi, Nyangatom (o Bumi), Kwegu (o Mugugi), sono seminomadi, e si sono spostati per millenni lungo la Valle del Nilo (che attraversa anche l’Etiopia: le cascate del Nilo Azzurro sono nei pressi del Lago Tana, a nord-ovest del paese). I Surma (o Suri) sono i più numerosi (circa 70.000) fra loro, e vivono nelle radure di boschi e foreste, sulla sponda occidentale del fiume Omo. Proprio per questo motivo sono rimasti, insieme ai Nyangatom, per una trentina d’anni isolati dagli altri popoli della bassa valle dell’Omo: erano raggiungibili solo da nord, attraverso la regione di Gimma, perché il ponte sul fiume Omo presso Omorate, voluto dal passato regime, era crollato prima ancora dell’inaugurazione. Ora, nell’estate del 2016, è stato costruito un nuovo ponte, presso Kangate, che rende possibile l’accesso, da est, al loro territorio e al Parco Nazionale Omo (che però, nell’arco di un anno, è stato scempiato, nella sua parte meridionale, per far posto ad una fabbrica cinese di zucchero, così come era successo, qualche anno fa, al Parco Nazionale Mago, nel territorio dei Mursi e dei Bodi – infatti questi ultimi sono dovuti fuggire, e si sono rifugiati in caverne segrete). Sono, generalmente, pacifici: hanno un ampio territorio rigoglioso a disposizione, dove praticano una agricoltura di sussistenza e soprattutto la pastorizia (i capi di bestiame sono importantissimi per loro). Recentemente hanno anche scoperto l’oro, nei pressi di Kibish, che cercano e setacciano in proprio.  Hanno provato ad opporsi all’arrivo del “progresso” nella loro area, ma sono stati duramente repressi. In più alcuni di loro sono stati “addomesticati” dai missionari (prevalentemente protestanti, qui, mentre i cattolici imperversano di più, nella loro missione di “convertire i selvaggi” estirpando le loro culture e tradizioni, nella vasta e aperta area orientale della valle dell’Omo). Hanno un rito di passaggio fondamentale (e comune anche ai Mursi) per i giovani maschi: il Donga. È una lotta che si combatte da soli, nudi e armati di lunghi bastoni semirigidi, attentamente levigati e dotati di una estremità fallica. Ognuno combatte con un solo avversario, ma sono diverse le coppie di contendenti che si sfidano nello stesso spazio aperto. Sono proibiti i colpi mortali (anche se a volte capita l’imprevisto) e la lotta è molto dura, a sangue. Per dimostrare al suo popolo di essere davvero un uomo, e per poter sposare una donna, un giovane deve necessariamente affrontare il Donga. E chi vince, naturalmente, acquisisce una posizione sociale privilegiata, potendo disporre così di numerose ragazze.

I loro vicini, i Nyangatom, con i quali a volte i Surma entrano in conflitto, e che a loro volta si scontrano spesso con gli Hamer quando oltrepassano il fiume Omo, sono strettamente imparentati con i Turkana, che vivono in Kenya, lungo le sponde centro-meridionali del grande lago, e con i Toposa, che invece risiedono nel vicino Sud Sudan (territorio dal quale gli stessi Nyangatom provengono). I Mursi sono forse il popolo più enigmatico e sfuggente della valle: il più intrigante. Sono rimasti in soli 8.000 individui, circa (forse meno), e devono difendersi strenuamente sia dall’assimilazione che dall’attacco del “progresso”, dal quale rifuggono. Sono bellissimi (considerano noi bianchi brutti e “sporchi” perché ci copriamo con magliette e pantaloni, mentre loro sono orgogliosi di esibire la propria nudità e il portamento statuario che li caratterizza) e hanno una grande cura del loro corpo, che lavano e disegnano incessantemente. I dischi labiali in terracotta, che adornano il labbro inferiore delle loro donne, da qualche tempo non sono più obbligatori, quindi molte ragazze ne sono prive (come avviene anche fra i loro “cugini” Surma, dall’altro lato del fiume). Si è molto discusso sul motivo dell’adozione, per secoli, di tale piattello. Probabilmente questa pratica è motivata da un fatto puramente estetico, decorativo (come i tatuaggi e i piercing delle ragazze occidentali di oggi). Resta il fatto che le ragazze Mursi godono di grande libertà: appaiono strafottenti e intemperanti ancor più delle nostre adolescenti. Sanno, infatti, di avere una proprietà unica, una ricchezza potenziale da far tremare le gambe… Infatti fra i Mursi i matrimoni sono solo d’amore, ed è la giovane donna a scegliere il partner. Se questi corrisponde, e i due vogliono sposarsi, la famiglia del ragazzo dovrà sborsare un capitale incredibile per il matrimonio: a seconda dei clan (e della ricchezza delle due famiglie) si va dai 35 fino ai 100 capi di bestiame: un dono capace di far vivere agiatamente tutta la famiglia della sposa. Per questo motivo fra i Mursi la nascita di una bambina (invece che di un maschio) è sempre molto ben vista (specie se, crescendo, la bimba si rivela carina). Massima libertà sessuale e disprezzo per il lavoro (a favore del tempo del divertimento, della cura di sé, del corteggiamento, del racconto tramandato a voce, del canto e della danza) caratterizzano questo popolo, la cui esistenza è stata “scoperta” solo di recente. I Mursi difendono strenuamente e con fierezza la propria libertà. È bello stare con loro a lungo, provare a comunicare, scambiarsi piccoli regali, respirare l’atmosfera dei loro villaggi. Realizzano, fra l’altro, oggetti decorativi e monili meravigliosi.

E arriviamo ai popoli omotici, quelli che ci interessano di più, perché ritenuti originari della bassa valle dell’Omo: quindi, ci piace immaginare, i più nostri antichi parenti. Sono gli Hamer, i Banna, i Karo, i Bashada, i Malle, gli Ari, i Bagia, i Dizi. Soprattutto i primi due hanno forti caratteristiche comuni (loro stessi si ritengono apparentati, e si aiutano a vicenda), ma i Karo (o Kara: il loro nome significa “Pesce”, e vivono di pesca e allevamento in soli tre villaggi lungo il fiume – sono rimasti solo in circa 1.500, e rischiano fortemente l’estinzione) hanno origini in comune con i Dassanech, nemici storici dei loro “cugini” Hamer (per questo i Dassanech, nei loro attacchi furiosi, risparmiano i Karo). I Karo sembrano aver ereditato un po’ della ferocia dei loro “cugini” cuscitici: nei loro riti di iniziazione i giovani devono farsi tagliare la parte superiore di un orecchio. Gli Hamer (o Hamar) sono il popolo più gentile e ospitale della valle dell’Omo. Sono in tanti, circa 75.000 oggi, e vivono in tre piccole città localita’: Turmi, Dimeka e Alduba, e in molti   villaggi sparsi per la savana. Hanno una struttura sociale molto aperta: vivono in maniera quasi del tutto anarchica. Non hanno capi (decide l’assemblea del villaggio – riservata però agli uomini), né religione strutturata, né preti, né poliziotti né giudici né galere. Tutto ciò è possibile perché hanno due tabù innati (come per noi l’incesto), cioè maturati in secoli o in millenni, per difendersi dalla piaga dell’autoritarismo: “Non uccidere e non rubare nell’ambito del tuo popolo”. Chi dovesse infrangere uno di questi tabù, verrebbe punito con la cacciata dal villaggio e con l’espulsione dal suo popolo. Anche per questo (come per risolvere altre diatribe fra loro) hanno un “re”, una presenza che detiene una pura carica simbolica, e risiede sul Monte sacro dal quale gli Hamer provengono: il Buska.

Per quanto riguarda la spiritualità, credono genericamente che il dio Bargio abbia creato l’universo, in un giorno remoto, ma che  sia  disinteressato di ciò che capita sulla Terra. Bargio è incarnato nella natura: nel sole, nelle stelle, nel vento: anima tali elementi piacevoli della vita. Gli Hamer sono l’unico popolo della valle che ha a cuore i cani, come animali di compagnia, oltre che come aiuto nella pastorizia, loro attività principale insieme ad una agricoltura di sopravvivenza. Ogni giovane Hamer che vuole passare dall’adolescenza alla maturità, e che ambisce a sposarsi, deve superare il rito d’iniziazione del salto dei tori, molto complesso e affascinante. Il giovane aspirante al salto si prepara già mesi prima, portando sempre con sé il boko: un oggetto fallico in legno levigato che rappresenta il suo passaggio di condizione: da ragazzo a uomo. Il giorno prescelto per il rito inizia all’alba. I familiari – che spesso vengono da lontano – si radunano, sotto tettoie accoglienti, e bevono una miscela di foglie e bucce del caffè nelle zucche tagliate e incise. Le ragazze della famiglia si preparano, vestite a festa, con le cavigliere sonore, i seni coperti (si capirà poi il perché) e impugnando trombette di ottone coperte di pelle. Aspettano l’arrivo dei frustatori, che passano di villaggio in villaggio. Quando questi arrivano, inizia il rito: le giovani donne della famiglia del saltatore corrono in cerchio suonando le trombette, come ossesse, in un turbine dionisiaco: sfidano i frustatori, che a loro volta si armano di finissimi virgulti. I colpi sfrecciano veloci e leggeri, lasciando sulla pelle di queste giovani baccanti segni che rimarranno indelebili, come tatuaggi. Il ritmo diventa, incalzante, ossessivo. Nel frattempo il giovane si prepara al salto: il suo volto viene dipinto, e, insieme agli uomini del clan, tira a sorte, impugnando il boko (che poi verrà abbandonato per sempre) il numero dei bovini sui quali dovrà correre e la sequenza dei salti che dovrà fare. In questa fase assumerà un nuovo nome, da adulto. Solo tardi, nel pomeriggio, i capi di bestiame verranno fatti giungere e saranno allineati, non senza fatica, nel luogo prescelto. Il ragazzo si spoglia nudo e indossa solo la cintura di pelle di bufalo selvatico, riccamente decorata e incisa, con la quale sua madre si è stretta il ventre dopo averlo partorito: è un oggetto che rappresenta il legame indissolubile fra loro, e due momenti fondamentali nelle loro esistenze: la nascita e il diventar uomo. Tolta la cintura, il corpo del giovane viene cosparso di terra e di sterco di vacca (a rappresentare un altro legame ancestrale: quello col luogo dove è nato e cresciuto), e, in maniera ieratica, si prepara al salto. Siamo al tramonto, ormai, e il ragazzo deve eseguire il numero di salti che il destino gli ha assegnato. Sono attimi terribili, di grande tensione, sia per lui che per i parenti. Se dovesse cadere a terra, o inciampare, in alcuni clan avrebbe la possibilità di ripetere la prova, ma solo l’anno successivo. In altri clan sarebbe fuori, per sempre, dalla vita civile da adulto nel villaggio. Quando la tensione si scioglie, dopo l’ultimo salto a terra, è un trionfo, per lui e per tutti quanti! La vita si è rinnovata, e un altro individuo va a far parte della comunità del villaggio e del popolo Hamer.

Ma per il giovane non è finita qui: dopo essersi rilassato e rifocillato, dovrà partire per andare da solo nella savana per alcuni giorni: per cavarsela senza aiuti e per conoscere se stesso, un uomo nuovo. Il primo matrimonio, per un giovane Hamer, è quasi sempre stabilito dalla famiglia di origine. Ma il secondo matrimonio (gli Hamer sono poligami) è sempre per amore. È la seconda moglie la donna più importante dell’esistenza. La vita sessuale degli Hamer è assolutamente libera: prima e dopo il matrimonio. Quando i ragazzi e le ragazze raggiungono la maturità sessuale, i genitori li spingono ad andar fuori dal villaggio, a conoscere giovani della loro età, a corteggiarsi gli uni con gli altri, a frequentarsi, a fare l’amore. Nessun ragazzo Hamer sposerebbe mai una ragazza vergine: vorrebbe dire che non ha imparato nulla nella vita. Anche dopo il matrimonio marito e moglie restano liberi (relativamente: senza esagerare, perché i figli rimangono comunque al marito ufficiale, che può chiedere il divorzio). La tutela e il mantenimento della prole è molto importante, e anche le adozioni sono assolutamente di routine: un bambino o bambina non deve mai essere lasciato solo/a. Solo i bambini nati malformati, ritenuti inabili a condurre una vita autonoma e libera, vengono abbandonati nella savana. Affinché ragazzi e ragazze possano conoscersi, sedursi a vicenda e stare insieme, gli Hamer organizzano le Evangadi. Sono delle serate di danza, che iniziano al tramonto, in un ampio spazio ampio ai margini di un villaggio, e possono protrarsi a lungo, nella notte. Se ne organizzano tante, specialmente alla fine della stagione delle piogge, quando la natura rende fertili le terre. I ragazzi si presentano, agghindati nel modo migliore che possono, e iniziano a danzare, saltando sul posto e avvicinandosi al centro dello spazio, per invitare le ragazze. La musica ritmica è data solo dal suono delle piante dei piedi sul terreno, dai campanellini che le ragazze portano addosso, ed eventualmente dal battito delle mani di chi è vicino alla scena. Le ragazze si presentano in gruppo, poi una, due, tre di loro si fanno avanti, e ciascuna, se e quando vuole, si avvicina ad un ragazzo, e in modo impercettibile per chi guarda, tocca col piede il tallone del prescelto. Significa, semplicemente, “mi piaci”. Ogni ragazza ha la possibilità di scegliere anche più di un ragazzo, come è nella logica e nella cultura del loro popolo.

La terra dei pascoli, e per la caccia, è in comune fra tutti gli Hamer. I conflitti con gli altri popoli (i Dassanech, gli Arbore) nascono spesso per il furto reciproco del bestiame. Nell’estate del 2015 si è verificata una grande e cruenta rivolta degli Hamer (nell’area vicina a Dimeka) contro il potere centrale (il passato regime di Deselegn, predatorio e autoritario). I Banna (circa 45.000) vivono nell’area intorno alle località di Key Afar e di Alduba, ma sono originari di Shangama. Sono in tutto molto simili agli Hamer: la lingua è affine, e anche la cultura, le tradizioni, i riti come il salto dei tori e le Evangadi. Ma i Banna si differenziano dai loro vicini-cugini per la struttura sociale. Sono ancora più libertari degli Hamer. Hanno verificato, cioè, che anche la struttura dei piccoli villaggi era troppo coercitiva per loro. Si sa: in un piccolo paese ognuno è spinto, dalla natura umana, ad interessarsi troppo dei fatti privati degli altri. Così, alcune generazioni fa, i Banna hanno scelto di vivere in questo modo: una singola capanna con una sola famiglia mononucleare, circondata da un po’ di terra da coltivare, sufficiente a sfamare la famiglia, più alcuni capi di bestiame (bovini e capre), tenuti al sicuro, di notte, in un recinto all’interno dell’appezzamento, circondato da una barriera di rovi. Dove finisce una proprietà di questo tipo ne inizia un’altra, senza soluzione di continuità.  Un numero congruo (e variabile) di tali appezzamenti costituisce un “villaggio”.

Ma tale soluzione anarco-individualista ideata dai Banna per vivere bene, viene corroborata da una grande solidarietà fra loro. Ogni giorno, in diversi momenti, ognuno passa a trovare i vicini, a chiacchierare, a sentire se qualcuno ha bisogno di aiuto, ad oziare piacevolmente. Il luogo d’incontro per tutti, invece, è qualcosa di molto simile alle nostre vecchie osterie di paese: la casa del tedge, cui possono accedere sia gli uomini che le donne. È un luogo molto gradevole (per i gusti di chi scrive): fumoso, pieno di voci, di risate, di odori, di canti… Il tedge è una bevanda leggermente alcoolica (simile al sidro secco) ottenuta facendo fermentare il miele (se ne raccoglie tantissimo qui, e di ottima qualità) insieme a delle bacche e rami di piante. È più pregiato se fatto fermentare a lungo, e lo si consuma ordinandone, e offrendone agli altri avventori, un litro alla volta, usando apposite boccette di vetro dal collo affusolato. È ovvio che, dopo qualche ora, il clima umano si riscalda, e i discorsi possono intrecciarsi con le risate. Per lunghi anni, ad intervalli, i Banna sono stati nemici dei loro vicini Malle, dello stesso gruppo etnico. I Malle sono un popolo numeroso (circa 100.000) e bizzarro: come gli Ari (altro numeroso popolo di etnia omotica, ma in buona parte ormai assimilato) hanno il tabù dell’uso delle armi da fuoco. Sono abilissimi arcieri: rispettati e temuti per questo. Ora, da più di 30 anni, Malle e Banna sono in pace, e i giovani dell’uno e dell’altro popolo possono sposarsi, volendo.

Gli abitanti odierni della Valle dell’Omo sono forse gli eredi diretti dei nostri antenati comuni: gli ultimi individui che continuano a vivere come tutti noi umani abbiamo fatto per un tempo immemorabile. Queste persone (gli omotici e i nilotici, in particolare) rappresentano concretamente una maniera del tutto “altra’” del vivere rispetto alla nostra: sono all’antitesi dell’omologazione e della massificazione: individualisti e liberi, e chiedono solo di essere lasciati in pace. Vivendo con questi popoli (chi scrive li frequenta assiduamente dal 2005) si capisce bene – lo si avverte sulla propria pelle – cos’è il cosiddetto “Mal d’Africa”: pura e semplice nostalgia, cioè desiderio di tornare a vivere nel profondo cuore del continente nero, dove e come abbiamo già vissuto per circa 130.000 anni (e dove sono rimasti i nostri fratelli, a sviluppare ancora oggi culture e tradizioni originali, uniche): la nostra Terra Madre.

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Fine. Clicca qui per leggere la prima parte e qui per leggere la seconda parte.

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