Dimitri Milleri
“Lingua/Parole” per giovani poeti /4

Cura/Sospetto

Attenzione ed equilibrio per affermare un’idea non gratuita di gesto poetico, cercando di svincolarsi dai rischi del diarismo e dai modelli novecenteschi. Ed esercizio del dubbio, che educa alla percezione più autentica per fare arrivare il messaggio-poesia forte e chiaro

Nato nel 1995 a Bibbiena (Arezzo), Dimitri Milleri è il quarto giovane poeta a cui è stato chiesto di definire una parola comune ai poeti della sua generazione e una parola che identifichi la sua poesia. Studia chitarra classica alla Scuola di musica di Fiesole e in altre istituzioni, ha pubblicato il libro di poesia “Frammenti fragili” (Carabba 2017). Nell’antologia “Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90” a cura di Giulia Martini (Interno Poesia 2018), a cui questa rubrica è ispirata, è introdotto da Davide Castiglione. Questa poesia è esemplare per quella programmatica “mimesi involontaria” che è ricerca di equilibri e corrispondenze fra parola e silenzio verso quella tensione superficiale della percezione, sempre liquida e mai immobile, dove le immagini sono tensostrutture minime, installate fra archetipi e simboli, accordi musicali che mettono in sospetto ogni certezza o verità da raggiungere per proporre un’accurata manutenzione della distanza fra sé e il mondo.

***

La sala d’aspetto

era un luogo di mimesi involontaria.

Era un silenzio privo di telefoni,

composto di frammenti: gesti usuali

in miniatura, archetipi di sedie,

gerani immobili.

Nulla giungeva allo stato solido, violenta

era la forza di gravità in ogni volto,

irrefrenabile

la volontà di divinarla.

 

Quando non ci fu più distanza

fra esterno e interno,

tutto si fece angusto, angusto e scomodo:

leggings a pois, riviste e prescrizioni

volevano restare corpi estranei.

 

Qualcuno poi spaccò la confluenza

con mosse improvvisate, gentilezze

dovute.

Bisognava essere buoni.

 

Cura
La parola che sento più adatta a descrivere il cammino poetico della mia generazione è cura. Ci sono molti modi di prendersi cura della poesia. Uno di questi può essere un esercizio di sincerità (penso in particolare alle poesie di Anita Guarino), che non vuole dire soltanto parlare in modo comprensibile, ma anche cercare di dar voce alla parte più nascosta di noi. Un’altra via è quello della ricerca stilistica, che ha comunque a che fare con l’autenticità, col cercare di non imitare la voce di nessuno. Poi c’è il modo proprio del divulgatore, di chi si spende per avvicinare il pubblico e far amare quest’arte a quante più persone possibile. A questo proposito, mi reputo molto fortunato a far parte dell’antologia curata da Giulia Martini, i cui membri, anche grazie a Interno Poesia, si sono subito distinti per una militanza attiva ed entusiasta. Tornando alla scrittura, credo che la nostra generazione cerchi di affermare un’idea non gratuita di gesto poetico, cercando di svincolarsi sia dai rischi del diarismo sia da quelli dei tanti trobar clus novecenteschi. Ecco che torna l’idea di cura, intesa stavolta come attenzione, tentativo di equilibrio. Molti di noi sentono il bisogno di rivedere costantemente il canone, cercando di comporlo non su base ideologica, bensì trattandola come fosse un armamentario, armamentari: insieme di spunti e strumenti da cui partire. Si tratta, di scegliere con cura (appunto) cosa tenere e cosa scartare, tornando sempre a rileggere e a rivedere le proprie posizioni. Infine io vedo una grande attenzione alla comunità, ai rapporti: un modo di vivere la poesia molto attento alla ricezione, alla dimensione comunicativa dell’opera d’arte. C’è chi potrebbe vedervi una mercificazione, ma in realtà non è altro che la premura di chi vuole che il messaggio arrivi forte e chiaro.

Sospetto
La parola che ho scelto per descrivere il mio itinerario poetico è sospetto. Tutto il mio percorso di scritture si fonda infatti su una rete di sospetti. Sospetto verso se stessi, in primo luogo, verso la sostanza dei sentimenti e i loro doppi fondi. Mi è capitato spesso di scrivere poesie in cui lo stile prende il sopravvento e si finisce per ornare il nulla. In quei casi è bene attendere, aspettare la macerazione di ciò che non si riesce a dire, per poterlo offrire alla penna in forma meno impura. Sospetto verso la lingua, dunque, verso le voci degli altri che a volte si appropriano di noi (o di cui ci appropriamo); verso gli automatismi del proprio idioletto e di quello della propria epoca, verso i punti in cui la forma si scolla dalla sostanza. Sospetto, inoltre, nei confronti della natura dei rapporti, che cerco di osservare mettendo in luce le condizioni materiali che li permettono, i bisogni che si incastrano e la connotazione degli stessi (perché si sa: non tutti i mulini sono mossi da acque chiare). Sospetto verso la poesia, investimento ad alto rischio per antonomasia, sempre sospesa fra la vanità dell’edonismo, e la singolare opportunità di farci bruciare le tappe attraverso cui ci avviciniamo faticosamente a un altro essere umano per arrivare subito all’intimità più trasparente. Infine, ultimo ma non meno importante, sospetto verso il sospetto stesso, affinché non si riduca a una patina scura sugli occhi, ma resti fedele alla sua vocazione più alta: educarci a una certa scientificità, dischiudere un realismo non ingenuo (quel tipo di realismo che si raggiunge se si riesce a stare in equilibrio sulla fune della percezione limitatissima che è propria del soggetto: la quale è pur sempre l’unico modo in cui possiamo interagire col mondo).

(A cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi)

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