“Lingua/Parole” per giovani poeti /5
Casa Sopraelevazione
Per Bernardo Pacini il muro-linguaggio che ci separa dagli altri non è una corazza individualista ma il simbolo della propria irriducibile unicità. Così come il drone che restituiva la prospettiva aerea dell’incendio di Notre-Dame non è dissimile dallo sguardo poetico che rivela enigmi
Nato nel 1987 a Firenze, Bernardo Pacini è il quinto giovane poeta a cui è stato chiesto di definire una parola comune ai poeti della sua generazione e una parola che identifichi la sua poesia. Si è laureato in letteratura italiana contemporanea e ha pubblicato due libri di poesie: “Cos’è il rosso” (Edizioni della Meridiana 2013), “La drammatica evoluzione” (Oèdipus 2016). Nell’antologia “Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90” a cura di Giulia Martini (Interno Poesia 2018), a cui questa rubrica è ispirata, è introdotto da Michele Ortore. La poesia che presentiamo è il volo di un drone. Passa sopra boschi e case come se sorvolasse uno scenario postumo a una catastrofe degli affetti. Lo sguardo dall’alto del “moscone in lega di carbonio” è quello poeta ed è telecomandato da un ex pilota di elicotteri. Un volo nel vuoto e nel freddo che denuncia la disappartenenza a sé, al mondo e agli altri. Questo rimpatriare dall’alto in una condizione di meccanica e involontaria mimesi del mondo non significa condividere tre vite di tre generazioni diverse di uomini ma giocarsele tutte come in un videogame.
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Visual line of sight
Mi dirige nel silenzio catastrofale dei boschi di montagna.
Lui pilota di elicotteri in pensione
ridotto a manovrare un moscone in lega di carbonio.
Osserva le mie mosse con lo sguardo, dal terrazzo della casa
dove ancora e senza requie pensa a quando era all’altezza
dei trascorsi militari di suo padre.
Rapido caseggiare di piccoli disastri decifrati
attesi
durante l’ennesima calata nel freddo
il giroscopio mi stringe la testa, ché io non pensi
di poter vomitare
emenda le mie febbrili oscillazioni
piega lo spazio / vuoto e incosciente
in spazio di rimpatrio.
Casa
Vorrei parlare della mia generazione poetica come di una casa, ma non posso farlo. In fondo, al di là delle argomentazioni, il titolo per certi versi profetico del libro di Greta Thunberg La nostra casa è in fiamme dà l’occasione di evidenziare un equivoco, che è valido anche per il pianeta alieno e alienante della poesia: non è vero che tutti abitiamo la stessa casa. Sappiamo di aver bisogno di una nostra abitazione: per riposare, per “starci”, anche per accogliervi qualcun altro: “Vieni a casa mia: ti ospito io”. Chi non ha una casa ne vorrebbe una tutta per sé. Anche la persona più operosa e accogliente, anche il più acceso nemico dei muri sa di averne costruito uno intorno. No, non è la corazza individualista dell’egoismo, troppo facile: questo “muro” è la propria irriducibile unicità. In poesia potrebbe essere lo stile, la forma. Non tanto la lingua, che è oggetto comune, trasversale. Il muro-linguaggio che ci separa dagli altri, il confine che delimita l’io e il tu è però paradossalmente il dono più prezioso. Spinge le persone a cercare la somiglianza nella differenza, il punto di contatto laddove la distanza sembrava incolmabile. Dal recinto del mio corpo, dal chiuso della mia mente, prendo coscienza della geografia dell’umano, per quel poco che so di me e del mondo visto da i miei occhi (non ne ho altri). Per non morire di asfissia, posso andare incontro a ciò che, grazie al cielo, è altro da me – non senza timore, certo, ma animato da un’inguaribile fiducia e curiosità. Possiamo cogliere i poeti come intenti in un sottile, forse inconsapevole dialogo continuo, come le case del poeta Umberto Fiori: loro assorbono il discorso del mondo, lo fanno riecheggiare, dietro agli spigoli ne mostrano l’infinità delle facce, i riflessi, le ombre, le luci, le dimensioni, gli ornamenti. Ci dicono chi le abita e come. Non lasciamo che, in nome di un progetto urbanistico che qualcun altro ha deciso, le generazioni poetiche trasformino i poeti in anonime villette a schiera.
Sopraelevazione
Nelle ore del recente disastro parigino mi è capitato di vedere una foto del rogo della cattedrale di Notre-Dame scattata da un drone. La prospettiva aerea dell’incendio ha devastato la mia immaginazione più di quanto non stessero già facendo i video e le foto che si moltiplicavano sui feed dei miei profili social. I media immediatamente messi a nostra disposizione, nell’atto ossessivo di ripetersi come assurdi frattali, avevano già messo in moto un tempestivo processo di ingrandimento dell’evento che lo trasformava in simbolo molto più rapidamente di quanto accada per i fatti normali del nostro presente. La dimensione frattale interviene quando la forma dell’oggetto in esame non è spiegabile con la geometria euclidea, determinandone il “grado di irregolarità”. A Parigi stava accadendo qualcosa di “irregolare”, un fatto le cui implicazioni la ragione umana non poteva spiegare. Non bastava la ricostruzione delle cause o l’attribuzione delle responsabilità: il fatto ci incalzava, spalancava voragini di domande. La prospettiva aerea dell’incendio offerta da quel drone, quella foto sgranata ha letteralmente preso d’assalto la mia coscienza colpendo sotto la cintura. Offriva un’altra prospettiva dello stesso dramma, rivelando l’origine della mia angoscia del momento: lo sguardo sopraelevato del drone mostrava che le fiamme che stavano divorando la cattedrale ne mettevano in risalto la stupenda struttura a croce latina. Macchie di Rorschach in grado di mostrare ciò che davvero stava accadendo: ben oltre il grado di irregolarità, più addentro all’evento. In altre parole: lo sguardo poetico sopraelevato non si pone come “supervisore” in senso autoritario, la parola poetica non ha funzione di comando né risolve dall’alto gli enigmi del mondo come un “deus ex machina”. La poesia cerca punti di vista differenti da cui osservare l’enigma, una specola che offra un grado più rischioso di conoscenza del mondo, che possa restituirne in qualche modo il cuore ferito, lo scheletro in fiamme.
(A cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi)