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Silenzio, c’è Avignone
In vista della grande kermesse teatrale (che inizia venerdì prossimo) il direttore Olivier Py ha spiegato: «Il teatro è il cammino più breve che porta dall’estetica all’etica. E viceversa». Un luogo dove si parla (anche) con il silenzio
«Se mi si domandasse oggigiorno qual è la funzione da attribuire al teatro, io direi che è il cammino più breve che porta dall’estetica all’etica. E aggiungerei che si tratta, altresì, del più breve cammino che porta dall’etica all’estetica. Per fare atto di coscienza politica, il teatro non deve far altro che aprire le sue porte». Così Olivier Py definisce la sua concezione di teatro nella brochure dedicata all’imminente kermesse teatrale di Avignone, che si aprirà venerdì prossimo, 5 luglio, per chiudersi il 23 prossimo nel grande scenario alto-provenzale della città conosciuta per essere stata scelta la sede del Papato dal 1309 al 1377. Direttore artistico dal 2013, Olivier Py si è fatto conoscere dal grande pubblico per essere stato uno dei pochi (insieme ad Antoine Vitez e al genio di Jean-Louis Barrault) a rappresentare Le Soulier de satin di Paul Claudel, una delle opere più ardue da mettere in scena del Novecento. (Lui che lascerà peraltro testimonianza del suo amore dichiarato per l’opera del drammaturgo e poeta francese in un saggio dedicatogli l’anno scorso: Olivier Py, Claudel, Buchet/Chastel, 2018, p. 264, 14,00 €).
Come nell’opus magnum claudelliano, lo spettatore del teatro porta con sé la sua incomprensione del mondo e la sua disperazione di essere isolato, quello che potrebbe altrimenti dirsi come il “silenzio della sala”. Di questa strana pratica di fare silenzio – così anacronistica rispetto alle polemiche da bar e agli attuali slogan da social network – il teatro è il più grande portavoce: ma silenzio non significa tacere, al contrario. Si può ironizzare quanto si vuole sul potere che ha il teatro di cambiare la società. E da quando la società è mondo, si è dubitato di lui, e da quando il mondo stesso è da salvare, si è potuto certo temere che il teatro non sia altro che un luogo riservato ad una élite alto-borghese di benpensanti.
Ma il teatro, che promette meno di quello che dà, non si accontenta di aprire dei mondi possibili – è azione. Si è accresciuto in noi il pericolo di vivere in un mondo disincantato, un mondo dove l’uomo rischia ogni minuto della sua breve esistenza di trovarsi solo davanti alla colpa e all’impotenza. Per aiutare ad attraversare la severità di questo tempo, il teatro propone semplicemente di riunirsi davanti alla rappresentazione eterna dell’umanità alle prese con questa impotenza. Il silenzio diventa quindi un mezzo per percepire l’immaginario condiviso, il legame profondo e indicibile della parola con il suo significato più recondito, il messianismo del collettivo.
Il teatro politico sostiene che la rappresentazione è l’essenza del politico, ha bisogno di immagini e di racconti per evitare di essere vuoto e di rappresentare solamente la violenza del potere. La nostra impazienza di una società più giusta, di un rapporto più sano al mondo, di una parola meglio condivisa, sembra essere il più alto desiderio politico. E, per questo, occorre “disarmare” la solitudine. Non vi è, in questa avventura, alcuna gerarchia, ognuno è assolutamente responsabile di se stesso e della sua parte di coscienza. «The rest is silence».