Dal 1849 a oggi: un salto indietro
Ciò che non siamo
Rileggendo la "Costituzione della Repubblica Romana” appena ristampata da liberilibri, viene spontaneo non solo valutare la potenza etica e progressiva dei padri risorgimentali, ma anche la grettezza (antistorica) dell'Italia presente
«La Repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini»: non è un tweet. «La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità; propugna l’italiana». Andate a dire, oggi, che c’è stato un altro tempo etico, per questo nostro disgraziato Paese! Eppure: ponete il caso – come è capitato a me – di avere come lettura estiva la Costituzione della Repubblica Romana del 1849 (nella bella edizione appena edita da liberilibri con una bella introduzione di Angelo Antonio Cerviati) e rimarrete di sasso. Proprio mentre impazzato i “bastardo” distribuiti un tanto al chilo da certi esseri spregevoli (purtuttavia scelti da una quota consistente di elettori), leggendo queste pagine ci si ritrova d’un colpo in un mondo impossibile che pare una favola con il finale amaro. «Il regime democratico ha per regola l’uguaglianza, la libertà e la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà né privilegi di nascita o casta», scrivevano i padri fondatori del 1849. C’è due modi per avvicinarsi a questo libro: uno è da storico del diritto; ed è quello propriamente scelto dal prefatore. L’altro è da curioso: come se la carta fondamentale della Repubblica Romana fosse uno strumento antropologico prezioso (anche) per capire la società dell’epoca. Ecco, in questa chiave, comparare poi il presente al passato è quasi inevitabile.
La Repubblica Romana rappresenta il punto più alto del Risorgimento italiano, forse l’unico caratterizzato da reale partecipazione popolare. In seguito alla morte cruenta (il 15 novembre del 1848) di Pellegrino Rossi, capo del governo di Pio IX e poi alla fuga repentina del Papa a Gaeta, i rivoluzionari romani il 9 febbraio dell’anno successivo dichiararono decaduto il papato e proclamarono la Repubblica Romana. Quel crogiuolo di progressismo e utopie si materializzò come un’idra per il conservatorismo europeo, al punto da essere vissuto come il male assoluto, il nemico da abbattere in qualunque modo: contro la Repubblica Romana si mossero gli eserciti papali, austriaci e francesi perché spazzare dall’orizzonte del progresso quell’esperimento era ritenuto indispensabile da ogni stato e monarchia.
Forse proprio per questo suo altissimo valore simbolico, la Repubblica Romana richiamò tutte le menti più brillanti e illuminate del nostro Risorgimento, a partire da Mazzini e Garibaldi: il primo nominato triumviro per la gestione della Repubblica, il secondo fatto generale per la sua difesa (e fu Garibaldi, con astuzia e tenacia a sconfiggere l’armata francese a fine aprile, salvo dover cedere ai primissimi di luglio di fronte all’impari confronto per uomini e mezzi). Nel diverso atteggiamento dei due in questa circostanza, per altro, c’è forse il peccato originale della sinistra italiana a venire. Mentre Garibaldi, sconfitti i francesi il 30 aprile, lanciava i suoi all’inseguimento per sbaragliare definitiva i nemici in rotta, Mazzini lo fermava con il pretesto di un accordo diplomatico con i nemici. Accordo, va da sé, che i francesi non rispettarono, tornando all’attacco della città con un giorno d’anticipo rispetto alla tregua prestabilita e con un’armata di gran lunga più nutrita di quella prescritta. Ma, anche nel giorno della capitolazione, il carattere dei due si manifestò in modo opposto. Consegnando le ceneri della Repubblica ai francesi, Mazzini chiese e ottenne un passaporto diplomatico per scappare su una nave inglese; viceversa, dopo aver proposto combattimenti a oltranza, Garibaldi riunì l’esercito romano in piazza San Pietro (il fantasma dei cosacchi che abbeverano i propri cavalli nelle fontane della piazza, sbandierato cent’anni dopo dalla propaganda democristiana, nasce da qui) e lanciò i suoi alla guerra di resistenza con un memorabile discorso: «Ovunque andremo, lì sarà Roma!». Finì come tutti sanno, con gli eserciti di mezz’Europa sulle tracce dei garibaldini, poi la rotta finale a San Marino e la morte di Anita a Comacchio.
Ecco, tutto questo è stata l’Italia che oggi si vomita addosso insulti uno contro l’altro. Sono di rammarico, per esempio, le parole del prefatore di questa bella edizione: «La Costituzione romana del 1849 – scrive Angelo Antonio Cerviati –, proprio in ragione della sua brevità e del carattere dirompente delle sue enunciazioni, ma anche per l’energica spinta etica e politica che la anima, rappresenta una delle poche costituzioni preunitarie che avrebbe potuto rivolgersi a tutti gli italiani, quale base per aprire un dialogo tra i diversi popoli appartenenti alla nazione sui valori costituivi della convivenza civile e sulla necessità di unire le forze, avviando dei rapporti pacifici con gli altri popoli europei». Convivenza civile è immagine chiave di questa citazione; per analizzare ciò che potevamo essere e non siamo diventati. Perché le parole etica, morale e libertà sono quelle che più spesso ritornano nel testo della Costituzione; intese come portatici di valori che esprimono uguaglianza, pari diritti e pari dignità fra le persone. La Repubblica Romana, per dire, requisì tutti gli edifici religiosi disponibili per farne scuole pubbliche, impose libertà di culto (garantendo esplicitamente i diritti della comunità ebraica, per altro), distribuì tra i contadini le terre della Chiesa: insomma, il principio fondativo fu quello di garantire a tutti uguali opportunità. E va da sé che la nomina dell’Assemblea costituente avvenne a suffragio universale, norma che si sarebbe imposta in Europa decenni e decenni dopo.
Insomma, questo siamo stati: un esempio etico per il mondo occidentale, l’avanguardia di un’utopia di diritti (che un secolo dopo avrebbero potuto essere chiamata “socialdemocratica”). Il tutto a partire da Roma, luogo dotato di un potere evocativo immenso (prima che fosse affogata da palazzinari, immondizie, topi e spacciatori, come di recente…). Ripeto, questo siamo stati: come è stato possibile, dopo solo un secolo e mezzo, andare indietro fino al punto dove siamo arrivati? Forse, un buon politico dovrebbe cominciare a porsi questa domanda e darsi qualche risposta. Magari dopo aver riletto la Costituzione della Repubblica Romana del 1849.