Raffaella Resch
Una retrospettiva a Milano e a Venezia

Opałka, storia di un’ossessione

Per l’artista franco polacco, l’atto del dipingere travalica le finalità artistiche e diventa una necessità esistenziale. E le sue opere presentate nel doppio progetto espositivo a lui dedicato lo dimostrano, emozionando

La natura della ricerca estetica dalla seconda metà del ‘900 ai giorni nostri ha profondamente modificato i parametri dell’opera d’arte e della sua fruizione, nel progressivo tentativo non solo di abolire stilemi e tradizioni appartenenti al passato, ma anche di reinventare un nuovo possibile statuto dell’operare artistico, in riferimento alla complessità delle nuove discipline umane e scientifiche e dei nuovi contesti storico sociali a cui l’artista si voleva rapportare. Una scelta esemplare per originalità e coerenza è quella del franco polacco Roman Opałka, a cui è dedicato un doppio progetto espositivo dal titolo Dire il tempo, a cura di Chiara Bertola, nelle sedi di Building a Milano (fino al 20 luglio) e di Fondazione Querini Stampalia a Venezia (fino al 24 novembre). Nei due diversi capitoli in cui la mostra è articolata, si ha la possibilità di approfondire il percorso di Opałka dalle prime opere di stampo concettuale minimalista, fino al cuore della sua produzione, un unico grande ciclo che l’artista intendeva essere un’opera sola, realizzato a partire dal 1965, data che costituisce il punto di svolta della sua produzione, e interrotto alla sua morte nel 2011.

A Milano troviamo esposta una cospicua selezione di tele e carte, tra disegni, acquarelli e incisioni, antecedenti al 1965, insieme ad alcune delle opere della serie successiva che prende le mosse dalla primavera del 1965, dal titolo OPAŁKA 1965 / 1-∞. A Venezia troviamo la prima e l’ultima di queste tele, il cui accostamento, come vedremo, ci indurrà una sorta di vertigine, rendendoci tangibile l’idea a cui l’artista ha cercato di conformare la sua opera, con una determinazione incessante. La sperimentazione di tecniche e linguaggi contraddistingue la produzione dell’artista fin dagli anni 50, in opere dai segni fitti, in cui s’intravede una ricerca di regolarità pur nella libertà di movimento con cui ancora si muove il pennello. Cosmi densi pullulano di esistenze simboliche, espresse da tratti a volte calligrafici, a volte puramente pittorici, regolari ed essenziali. Dagli scritti risulta il suo sforzo di accedere a una dimensione rappresentativa del tempo e dello spazio nella maniera più pura e astratta. Opałka tuttavia avverte il limite di questo primo approccio nella presenza formale del segno, benché ridotto alla minima astrazione possibile, e nella “chiusura” di ogni opera, delimitata come un elemento a se stante nel flusso temporale della creazione, che l’artista invece ambisce a rendere continuo, senza interruzioni.

Sarà proprio a partire dal 1965 che Opałka compie un passo decisivo, come logica conseguenza del suo obiettivo di fornire una narrazione ininterrotta del tempo dell’opera d’arte: deciderà di traslare il segno pittorico in segno matematico, accedendo così all’infinito nella maniera in cui la matematica ce lo può rappresentare, con la successione senza fine dei numeri naturali a partire da 1. Ogni tela procede nella numerazione a partire dalla precedente, venendo così a costituire un dettaglio di un’unica grande opera d’arte, destinata a durare tanto quanto la vita dell’artista, e che si strutturerà in quarantacinque anni di lavoro in cui verranno realizzati 237 dipinti. Così Chiara Bertola ci riporta le parole di Opałka all’inizio di questo immane lavoro: «Tremando per la tensione davanti alla follia di una simile impresa, immergevo il pennello in un vasetto e, sollevando leggermente il braccio, lasciavo il primo segno, 1, in alto a sinistra, all’estremità della tela, perché non rimanesse nessuno spazio fuori dall’unica struttura logica che mi ero dato».

La liturgia con cui Opałka compie questo intransigente rito artistico è articolata in maniera ferrea e non modificabile: ogni tela ha lo stesso formato, 196 x 135 centimetri (la dimensione della porta del suo primo studio a Varsavia); su di essa i numeri sono dipinti senza soluzione di continuità in bianco titanio su fondo grigio, un fondo che di opera in opera Opałka schiarisce dell’1%, fino a renderlo indistinguibile dalla traccia dei numeri. L’obiettivo dichiarato è che si arrivi al momento «in cui dipingerò bianco su bianco», e allora, come succederà a partire dal 1968, al dipinto Opałka affiancherà la registrazione della sua voce che “recita” in polacco i numeri mentre li riporta sulla tela. Non solo: se l’opera segue il flusso del tempo, anzi si trasforma essa stessa in un’entità fisica che rappresenta il flusso temporale in diuturno divenire, così anche la presenza dell’artista viene registrata in una sorta di diario visivo, con scatti fotografici realizzati al termine della seduta di pittura, sempre nella stessa posa, con la stessa luce, persino la stessa camicia abbottonata sempre allo stesso modo. Questa serie di autoritratti mostra evidentemente la relazione tra il “corpo” dell’opera e quello dell’artista, le cui fattezze mutano negli anni e, come nella sua pittura, si avvicinano ineluttabilmente alla scomparsa.

Opałka muore a Chieti il 6 agosto 2011. Le sue opere, la prima e l’ultima OPAŁKA 1965 / 1-∞, sono accostate in una sala della Fondazione Querini Stampalia, mentre nel palazzo risuona la voce dell’artista che scandisce i numeri, gli istanti della sua vita che sono anche quelli della sua arte. Pare inverosimile che una scelta formale rarefatta fino al minimo logicamente indispensabile, cerebrale e astratta possa portare con sé tanta emozione, e ci induca a percepire come l’atto del dipingere travalichi finalità artistiche e diventi una necessità esistenziale, per fare emergere l’essenza della pittura e della vita, racchiusa in uno strenuo, incrollabile e rigoroso anelito di fare arte.

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