Giuliana Vitali
Una preziosa testimonianza d'epoca

Lezione da Renata Orengo

Nel Diario di guerra di Renata Orengo (la moglie di Giacomo Debenedetti), scritto tra il 1943 e il 1944, c'è la descrizione di un mondo di valori perduti. Malgrado il dolore, le privazioni e l'occupazione nazista, speranza e solidarietà non vengono mai meno

«Se non fosse stato per Renata Orengo (mia madre), i libri editi di mio padre sarebbero stati molti di meno…»,  racconta Elisa Debenedetti quando la intervistai diversi anni fa per Succedoggi. «Gli è sempre stata accanto. Era molto dotata, laureata con Venturi, diplomata in pianoforte. Ha tradotto diverse cose e scriveva molto bene», continuò. In quella chiacchierata, mi parlò anche di un diario di guerra, scritto da Renata – la gentilissima come la chiamava l’amico Saba – durante il periodo delle persecuzioni. Qualche settimana fa l’ho ricevuto; Elisa, Antonio, Marco hanno deciso di auto-pubblicarlo, senza casa editrice, in mille copie. Già una prima edizione uscì nel 1965 a cura dell’editore Scheiwiller e sempre in copie limitate in occasione del ventesimo anno dalla Liberazione.

È un diario breve, di sessanta pagine che mette insieme gli scritti dell’autrice dei mesi di giugno e luglio del 1944 quando trovarono rifugio, grazie a Pietro Pancrazi, nelle campagne del Cegliolo, in provincia di Cortona. «È un grande dono essere figli di due genitori così, che non si perdono oltre la morte, perché possiamo sempre ritrovarli nei loro scritti», dice la stessa Elisa nella prefazione. Infatti, la sua non si limita alla memorialistica, è quasi un testamento culturale, storico ma anche familiare-emozionale che  ha lasciato in eredità sia ai figli, ai nipoti e – nell’inconsapevolezza – alla società contemporanea con sottile umiltà di scrittura e forse con troppa riservatezza. L’impressione è quella di pagine scritte quasi di nascosto, attraverso una sensibilità di scrittura emersa così all’improvviso dopo l’insistente silenzio come a non voler rivelare la sua brillante dote di scrittrice vivendo da sempre, per scelta, all’ombra della genialità di Giacomo. Forse una rinuncia a se stessa quasi come atto religioso, di sacrificio per dedizione all’altro. Un sentimento che ricorre spesso nel diario: «Abbiamo messo i profughi nelle scuole. Ringrazio il Signore che mi concede di amare questi poveretti, amarli come sono, sopraffatti dalla sofferenza, incapaci di reagire, amarli con le mani coperte di scabbia, i capelli coperti di pidocchi: mi viene sempre voglia di mettermi tra loro (…)». È una scrittura “in punta di piedi”  come si disse anche per la “moglie di Moravia” – fu proprio così che venne definita la Morante in un articolo della Settimana Incom illustrata del 1950 – per l’eleganza e la discrezione, ma non per questo meno di denuncia, della narrazione e anche per la rappresentazione del loro ruolo in apparenza trasversale nella realtà intellettuale di quegli anni. Due donne, grandi amiche – affettuosa ed empatica la corrispondenza tra le due riportate nel libro L’amata di Elsa – che hanno preferito mettersi da parte per lasciare spazio alla figura inevitabilmente ingombrante dei compagni anche se con seguiti diversi.

Giacomo Debenedetti viene nominato poche volte durante il racconto. C’è un ribaltamento dei ruoli: è Giacomo ora l’ombra di Renata – «Giacomo non si è mai mosso dallo stanzino che gli serve da studio tutto impregnato dell’umido caldo della stanza che brucia nella stufa; una sorta di trincea nella grande casa». Il racconto dei giorni spesso è molto breve e scorre tra poesia e narrazione cronachistica proiettandosi verso un alto sentimentalismo alla ricerca della salvezza dalla guerra ma soprattutto della sopravvivenza spirituale trovando riparo nella speranza, in una certa consolazione nella fede in Dio nell’Uomo alla quale continua a credere sempre: «Forza e speranza sono concesse dal cielo a turno, avaramente».

È proprio nella clandestinità che la Storia non si ferma, che esiste la speranza della salvezza, di ritornare alle abitudini di una vita, ciò che invece non apparteneva a chi dall’assurda contumacia in cui si ritrovava diventò poi prigioniero dei lager. Scriveva Primo Levi che il termine “mai” nel gergo dei campi era “Morgen fruh” che significava “domani mattina”. Il giorno perdeva di qualsiasi senso. Per Renata, lo scorrere del tempo è l’attesa della redenzione: «La tramontana, cominciata stanotte, è ancora cresciuta durante il giorno: il vento fischia nei camini, urla nella cappella, fa cadere pezzi di intonaco dai vecchi muri. Fuori i grandi platani si piegano come stessero per abbattersi… e l’erba cambia continuamente colore. Per quanto tempo saremo ancora qui isolati dal mondo?».

Il luogo fa da protagonista; suggestivi i passi che si aprono alla descrizione del paesaggio che sembra dare respiro al racconto dalla bruttura di un paese assediato, distrutto dai nazisti – «La piana è piena di nuvolette di fumo; piccole nuvole dall’aria innocente che diventano rosate quando il sole è alto nel cielo: sono i tiri dei cannoni. Questa è la guerra, la guerra vera a pochi passi da noi» –. Renata Orengo osserva la realtà, la fa sua senza però penetrarla del tutto, resta soffocata dalle ombre della pena non riuscendo così liberamente ad esprimersi e perciò a goderne a pieno. Il suo sguardo resta a metà tra cieca prigionia e luminosa malinconia verso quella bellezza attraverso cui cerca di valicare l’incertezza; è il riscatto seppur forse illusorio alle atrocità radicate in ogni angolo come radici che si propagano imperiose tutt’intorno.

Questo piccolo diario diventa oggi ancora più prezioso non solo per il suo valore letterario ma per riscoprirsi guida conservando, esperendo il valore della solidarietà che da sempre appartiene alla gente perché senza il vicendevole aiuto chissà se mai ci sarebbe stata sopravvivenza. Nasce perciò una necessità, la responsabilità sociale che dovrebbe far sì che la testimonianza della Orengo possa essere riconosciuta e divulgata a un maggior numero di persone attraverso una coscienziosa pubblicazione da parte di uno dei nostri più attenti editori.

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