Danilo Maestosi
Al Maxxi di Roma fino al 12 gennaio

Il filo di Maria Lai

Finalmente un grande riconoscimento per Maria Lai, un'artista che ha inseguito a lungo una dimensione femminile della creazione. Trovandola alla fine grazie al filo e la filatura intesi come la traccia di un alfabeto segreto e remoto

Curioso che a dischiudere alla creatività contemporanea una delle poche vie praticabili per lasciarsi alle spalle la palude d’incomunicabilità e aridità in cui è rimasta invischiata sia una voce femminile come quella di Maria Lai (1919-2013), anomala eco che arriva dal pianeta dell’Altra metà dell’arte, ancor oggi il meno popolato, esplorato e aperto alla fama dell’intera galassia.  Ancor più singolare che questa ventata di freschezza espressiva, questo ardore di giovinezza emani da un’autrice fuori schema, spuntata alla ribalta così tardi e da una terra, la Sardegna, così arcaica e isolata da rendere difficile non imprigionarla nella memoria e nelle sembianze di una sorta di eterna vecchiaia, altro pianeta alieno e contro tendenza.

Le stesse marcate impronte di rughe, ricordi e sorrisi di pacata saggezza che ci rimandano del resto le testimonianze e le interviste video, tutte risalenti a pochi anni dalla morte, scelte dai due curatori, Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli, per scandire i capitoli della mostra, in cartellone fino al 12 gennaio, con cui il Maxxi di via Guido Reni le rende sontuoso ma tardivo omaggio. Liberando finalmente Maria Lai da quella soffocante cornice di preziosa nicchia in cui era, malgrado tanti attestati di stima, imprigionata: una chicca che la platea internazionale veniva invitata a riscoprire di tanto in tanto, come avvenne alla penultima Biennale di Venezia quando la curatrice francese Cristine Macel – non a caso una donna – le consacrò alla memoria il prologo all’ingresso del Padiglione dell’Arsenale.

Da occasionali citazioni ad una retrospettiva a tutto campo. È il salto proposto da questa rassegna. Davvero corposa: oltre ottanta opere che coprono l’intero arco creativo della sua carriera, trascurando giustamente solo il lungo periodo della sua formazione, il suo esordio non particolarmente rilevante come pittrice figurativa. Un film sintetizzato dalle note biografiche esposte a inizio percorso che all’inizio si srotola, senza spiegarci apparentemente nulla. Come ogni vita, una matassa inestricabile di esperienze, tentativi, incontri, amicizie, lutti, frustrazioni, delusioni, andirivieni tra Venezia, Roma e la Sardegna, e nessun filo che, giunta a metà percorso, le indichi la strada da seguire per laurearsi autentica artista di rango. Per questo Maria Lai stacca la spina e per quasi un decennio si chiama fuori, rientrando prima nel suo paese di Ullai, nell’Ogliastra, un borgo antico incastonato da montagne che lasciano un varco alla vista del mare, e poi dove la porta il ruolo di insegnante, che si è scelto per naturale vocazione all’ascolto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, ma anche per sopravvivere.

Là, in quel rifugio relativamente appartato, riscopre il tempo che davvero le appartiene, insieme alle voci dei suoi ricordi e della semplice gente che le sta intorno, a quel mestiere di vivere da donna insieme ad altre donne che restituisce concretezza e libertà alla sua presa di coscienza femminista. Alla trascinante calamita del gioco. Al riaffiorare di memorie del suo apprendistato d’accademia cui solo ora comincia a dar senso. Come a quelle criptiche lezioni di Arturo Martini a Venezia, quando il grande maestro in preda alla disillusione tuonava oscure profezie sul futuro della scultura, ormai una lingua per cimiteri, quando esaltava come modello l’arcano mistero delle statuette nuragiche, quando invitava i suoi allievi a misurarsi col vuoto ed le segrete forme racchiuse nella pietra, e poi suggeriva loro di considerare l’arte dello scalpello come la traiettoria di un sasso lanciato in aria.

Un tempo parallelo quello vissuto in Sardegna, ma mai fuori dal tempo, il tempo irrigidito del mondo attorno che in quegli anni gli artisti più impegnati si prefiggevano di cambiare, o comunque di contrastare.

È clima del presessantotto che fa da incubatrice all’arte povera e al trionfo in Italia del pop. E che diventa anche la scintilla della sua svolta creativa. La fase dei telai: il capitolo iniziale e più ricco di questa mostra. Ad Ullai molte donne vivono tessendo tappeti. La forma che Maria Lai ruba ai suoi ricordi è quella degli attrezzi con cui lavorano. Lei li decompone e ricompone sulla tela o su grandi pannelli, sfruttando la sagomatura dello spazio di quelle corde tese per poi aggiungere nei vuoti grandi macchie di colore o ritagli di stoffa. Insomma un intervento a due dimensioni ancora da pittrice, che da vita a immagini trasfigurate di grande tensione, specie nelle prime opere della serie.

Ti avvicini e scopri che quegli ingranaggi che tagliano aguzzi lo spazio sono in realtà assemblaggi di coltelli, cucchiai e forchette di plastica. In quel lavoro che prefigura, da quegli strumenti crudeli che ritrae come relitti in abbandono, emana un senso di sfruttamento, di dolore, di vita vissuta. Solo una di queste macchine parlanti, il resto scolorito e guasto di un vero telaio in disarmo, occupa lo spazio in tutte le tre dimensioni, come una scultura appunto. O meglio ancora, come spiega il titolo che la battezza, un oggetto-paesaggio. L’interno che si proietta all’esterno e viceversa, trovando in questo doppio itinerario verità e profondità.

Il salto successivo è coerente con questa riscoperta d’immaginario femminile, dove oltre alla forma Maria Lai trova anche il segno. Il filo e la filatura come la traccia di un alfabeto segreto e remoto, ogni passaggio d’ago imprime una parola o la sua impronta sbiadita, che evoca il mondo dei libri, dà sfogo alla sua passione per la lettura e per la poesia.

Nasce da qui la serie dei libri cuciti. Grumi sovrapposti di stoffa grezza che Maria Lai squaderna come un volume aperto, pronto a raccogliere una storia da raccontare, un verso che l’ha colpita, il messaggio di in titolo da trasmettere. Ecco tra le opere più emozionanti, Tenendo per mano il sole, la sua  poetica della fantasia da liberare insieme trasformata in un icona di pura poesia: un cerchio di stoffa arancio vivo da cui si dipartono raggi diritti o attorcigliati dello stesso colore. Via via così verso lavori di sempre maggiore astrazione, i libri trasformati in paesaggi interiori  di luci e ombre alternate, i fili di diversi colori che prima mimano la scrittura o si posano a di segnare sagome di animali stilizzati e poi si riversano oltre le pagine in matasse e grumi più densi.

No, no, troppo facile ricorrere alla figura di Penelope. Maria Lai non ha nulla a che fare con la sua rassegnazione. Se mai ricorda Arianna, quel filo dipanato per entrare e uscire dal labirinto. Dentro-fuori. E’ il congegno concettuale e poetico che anima tutti i suoi lavori. Quelli che cuce e imbastisce sono sentieri di viaggi possibili o impossibili ma comunque sognati. Come nella serie del viaggiatore astrale, a mio avviso, il siparietto più intrigante della mostra e il culmine della sua carriera creativa. I fili che disegnano nello spazio mappe immaginarie, continenti alla deriva, isole in cui approdare, cosmogonie in cui perdersi per ritrovare la propria ansia di assoluto. Un gioco, uno dei tanti giochi di cui è costellato il suo percorso, e insieme una sfida da praticare insieme. Come quelli che hanno consegnato la sua figura d’autrice ad esperimenti che le aggiungono un aura leggendaria di vera magia e le assegnano nel linguaggio avaro della critica, il primato di pioniera nell’arte di relazione. È il 1981 quando Maria Lai mette in subbuglio Ullulai, il suo paese, con una performance collettiva intitolata Legarsi alla montagna, immortalata in bianco e nero da un maestro della fotografia come Berengo Gardin. Gli abitanti che si passano di mano in mano rotoli di strisce di jeans ritagliati e con quelle, seguendo ognuno ricordi, storie, liberi collegamenti, trasformano in una ragnatela le strade del borgo.

L’arte ci prende per mano. È il messaggio cucito con filo bianco su una lavagna di stoffa, che Maria Lai si lascia alle spalle. La verità di essere fino all’ultimo se stessi, senza mai dimenticare il rapporto con gli altri, con l’Altro. Ecco la pietra lanciata nel vuoto con cui questa vecchia maestra di saggezza si iscrive nell’albo d’oro della contemporaneità.

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