A proposito di "Breve storia dell'inconscio"
L’anima e l’inconscio
Frank Tallis traccia il profilo di una "scoperta" che ha cambiato l'umanità: la porzione di sé che mette in relazione interno ed esterno, spirito e concretezza. Ciò che, solo molto tardi, con Freud. ha dato corso alla psicoanalisi
«Avrò agito in maniera inconscia»: questa frase, con tutte le sue cento variazioni, è ormai espressione da autobus, non (più) da manuale. L’inconscio è diventato un nostro compagno lessicale, spessissimo accarezzato, il più delle volte frainteso e/o bistrattato. Tutto ciò in tempi di rinnovato interesse (anche editoriale e persino televisivo: vedi le “lezioni” di Massimo Recalcati su Raitre) per la psicoanalisi. Conviene allora chiarire quelli che si chiamano i fondamentali e come ci siamo arrivati. Grande ausilio ce lo offre un libro de il Saggiatore (Breve storia dell’inconscio, di Frank Tallis, 330 pagg., 22 Euro). Il sottotitolo è accattivante: “Esploratori delle mente nascosta da Leibniz a Hitchcock”. Scrive Vittorio Lingiardi nella prefazione: «Se la memoria non è un semplice archivio, neppure l’inconscio può esserlo. Non la cantina dei desideri rimossi o negati, ma un laboratorio di stati mentali, memorie implicite e trasformazioni sensoriali». In immediata evidenza ci troviamo dinanzi a qualcosa di complesso, non raggrumabile nelle frasi “da autobus” o sala da the, dove orecchiare certi concetti fa solo confusione. Il libro de il Saggiatore è prezioso anche perché illustra le tappe dell’esplorazione del sé, prima che comparisse la meteora Sigmund Freud.
Di solito si pensa a Sigmund Freud, e qui ci si rimane. Errore, senza per questo diventare detrattori dello psicoanalista viennese, “inventore” del lettino, possibilmente in una stanza dove domina l’ombra. Perché ci si rivolge a un esperto di una materia così affascinante ma anche così volatile? La risposta più sincera la possiamo trovare in sant’Agostino: «Non posso comprendere tutto ciò che sono». Conosci te stesso, predicavano gli antichi ateniesi nelle agorà più colte. Indubbiamente è uno dei distillati di saggezza comportamentale e mentale. La cultura occidentale è nata all’ombra del Partenone, c’è poco da fare. Il sacerdote di Ippona ebbe la saggezza di ammettere che la nostra coscienza ha una capacità limitata. Nei nostri stati di consapevolezza avvertiamo – annota il prefatore di questo documentatissimo saggio – «…la presenza del nostro inconscio come un fantasma; invisibile eppure in qualche modo presente».
Freud ha “mortificato” per la terza volta l’antico sapere (o meglio: la presunzione), dopo Copernico e Darwin. Tuttavia è obbligatorio affermare che Freud non fu l’unico scopritore dell’inconscio: semmai lo ha perfezionato e reso popolare, a seguito di enormi intuizioni formulate nei secoli precedenti. Ma c’è voluto un intero secolo per approdare ai misteriosi viaggi della nostra “anima”. Il filosofo John Locke (nel 1690) e poi Gottfried W. Leibniz parlano di inconscio come chiave necessaria per entrare nel grande salone della riflessione filosofica. In particolare Leibniz, nei Nuovi saggi, intende la mente come un’unione di parti consce e inconsce. Un’eresia vista che c’era un dogma secondo cui l’uomo era dotato di “ragione divina”, quindi non influenzabile da eventi psichici così impalpabili. Il suo pensiero illuminista, allora definita “follia”, decretava che l’introspezione potesse interamente i meccanismi mentali. Nessuna zona buia nel nostro cervello ogni suo anfratto poteva essere illuminato dall’analisi interiore. Fu colpa anche di Voltaire la messa in disparte di queste intuizioni: nel suo Candide il dottor Pangloss mette in ridicolo il filosofo tedesco. Fu uno dei tanti errori compiuti dal tanto osannato Voltaire (detrattore dell’ebraismo, tra le altre cose: una delle cose che si dimenticano con troppa faciloneria). Notevole la stoccata del poeta William Blake: «Ridi, ridi Voltaire, tanto è tutto vano».
Non si deve dimenticare il filosofo Arthur Schopenhauer che studiò l’uomo come creatura irrazionale governata da forze inconsce. Il tedesco risentiva dell’aura romantica che conferiva all’uomo un posto centrale. Non a caso i pensatori romantici erano più che convinti che dietro la natura “visibile” ci fosse il “Grund”, ovvero uno sfondo misterioso. Non si può capire a fondo l’evoluzione intellettuale senza Schopenhauer, secondo il quale l’inconscio possiede memorie sue proprie., in altre parole una sorta di deposito di antiche tradizioni, simboli e temi sempre ricorrenti. Come Enea, Orfeo e Dante alcuni discesero negli inferi della mente. Su sollecitazione di Lord Byron, il poeta Coleridge si isolò dal mondo, assunse oppio, e descrisse nel suo Kubla Khan (incompiuto) numerose “visioni”. Della sua opera disse che era stato elaborato “senza uno sforzo conscio”. Sosteneva di vedere “spettacoli grandiosi”, dopo aver dilatato chimicamente immagini evocate prima del sonno. Accennava a una “feroce chimica dei sogni”.
Gli americani Charles Peirce e Joseph Jastrow pubblicarono al riguardo, nel 1884, uno studio accademico, ma solo anni dopo furono considerati antesignani della “percezione subliminale”. Respinto dalla maggior parte dei neurologi fu Franz Anton Mesmer, il cui nome venne collegato a un fluido magnetico, la cui carenza sarebbe stata causa di molte malattie fisiche. Coccolato da una certa aristocrazia, Mesmer nel 1777 lasciò Vienna per Parigi, ma anche qui fu oggetto di attacchi e sberleffi. La medicina ufficiale non prese mai in considerazione il mesmerismo (Charles Dickens manifestò tuttavia estrema curiosità). Già nel 1791 Eberhard riferì del caso di una giovane donna in grado di cambiare le sue peculiarità “teutoniche” in quelle di una gran dama francese, con tutti i suoi manierismi. Si parlò di “personalità alternante”.
La letteratura, come si sa, è sempre stata antesignana di certi fenomeni. A parte il capolavoro di Robert Stevenson (Lo strano caso del dottor Jeckill e mister Hyde) Hans Christian Andersen scrisse una favola (L’ombra) nella quale il protagonista si separa dalla propria ombra. Quando la nostra scura proiezione ritorna emergono i guai. Fedor Dostoevskij ne Il sosia tratteggia la figura di un impiegato statale che incontra il suo “avatar” maligno, che racchiude tutto ciò che il protagonista odia e teme. Chi poi non ricorda Il ritratto di Dorian Gray (1891) di Oscar Wilde? Insomma, secondo il romanticismo la mente è insondabile e l’inconscio è il suo deposito segreto. La presa di controllo da parte di certi demoni (chi non ne è aggredito?) apre il vaso di Pandora. La visione dell’inconscio compare anche nelle opere di Friedrich Nietzsche, il quale vedeva l’uomo come creatura che inganna se stessa attraverso un’introspezione “viziata”, ovverossia governata da un inconscio primitivo e caotico, un maelstrom pressoché micidiale. Purtroppo l’opera di Nietzsche è stata spesso o ignorata o avversata a causa dell’amicizia con Wagner e degli elogi concessigli dai nazisti.
Poi fu in voga l’ipnotismo, spettacolare senza dubbio, ma generalmente considerato poco affidabile. A Le Havre accadde qualcosa di molto importante nella storia dell’inconscio. Il giovane psicologo Pierre Janet nel 1885 iniziò una serie di esperimenti su una donna (anonimamente ricordata come Madame B.). Temerario? Certamente sì se si pensa che la sua relazione fu letta al convegno della Société de Psycologie Physiologique, presieduto dall’eminente professor Jean Marie Charcot. Venne stabilito che quei testi non dovessero essere pubblicati (Janet non protestò pubblicamente per il semplice fatto che era assente). Altri fecero tuttavia esperimenti simili: telepatia, trance ipnotica, ecc. All’intellighenzia parigina Janet a poco a poco apparve come un precursore dell’esplorazione psichica. Ma Janet, docente di filosofia, consegnò a uno dei suoi seguaci Madame B.: donna di mezza età, robusta, paziente e dotata di un vocabolario assai limitato. L’allievo di Janet, il dottor Gibert, dimostrò che la donna cadeva in uno stato di trance a circa 500 metri dal medico e dallo stesso Janet, in un orario indicato da una terza persona (e ignorato dall’ipnotista). Singolare tuttavia il fatto che il brillante Janet a un certo punto abbandonò completamente gli studi e gli esperimenti di telepatia. Qualcuno, e non a torto, sostenne che la psicologia aveva dimenticato il suo Newton.
Entrò prepotentemente in scena il neurologo Jean Martin Charcot, esperto di isteria, dai più considerata un mistero. Charcot fu chiamato “prince de la science“ e come tale dimostrò al suo sempre più vasto pubblico che i sintomi isterici potevano essere suscitati ed eliminati grazie alla suggestione. Charcot non si limitò a spiegare al giovane Janet che l’ipnotismo poteva giovare in ambito clinico, ma che alcuni disturbi fisici potevano avere un’origine meramente psicologica. Le cosiddette “ideée fixex”, che si annidavano in una zona nascosta dove la sonda dell’ipnosi non poteva arrivare. Fu comunque Janet ad avere successo ipnotizzando i pazienti fino a eliminare certi sintomi. In un certo senso “rimodellava” memorie inaccessibili. Sempre Janet fu colui che coniò il termine subconscio: null’altro che inconscio, fatte le debite differenze. L’autore del saggio, Frank Tallis, le spiega così: «Janet aveva introdotto il termine subconscio per una ragione molto specifica: voleva operare una distinzione chiara tra il concetto di mente inconscia, come origine della malattia mentale, e l’inconscio definito dai filosofi, concetto più generale ancora sostanzialmente legato al romanticismo. Sfortunatamente, il termine inconscio continuò a essere usato in modo generico sia dai medici che dai filosofi».
Per capire appieno l’origine della psicoanalisi sarebbe sbagliato trascurare l’importanza di Janet (che si laureò anche in medicina). Il quale, tra l’altro, sosteneva che il clinico doveva stare da solo con il paziente al momento della visita medica. Non solo: il terapeuta (termine, per la verità, non ancora usato a quei tempi) doveva annotare le varie fasi della vita del paziente e valutare gli effetti di eventuali trattamenti passati. Janet era un pensatore eclettico, tanto è vero che ipotizzò l’uso terapeutico di certi farmaci ( gli antidepressivi). Trovò nel suo percorso un grande nemico: Freud, che non smise mai di attaccarlo fino a muovergli accuse di antisemitismo. Il cosiddetto padre della psicoanalisi si rifiutò sempre di incontrarlo. Anche “i grandi” possono essere piccoli e invidiosi.
Freud deve invece molto all’incontro al collega Joseph Breuer che gli parlò di una donna che tentava di curare, Bertha Pappenheim. Bertha cominciò a manifestare forti disturbi fisici dopo la morte del padre da lei accudito fino all’ultimo. Accusava mal di testa, mancanza di appetito, indebolimento della vita, tosse, strabismo, paralisi in diverse parti del corpo. Inoltre non riusciva più a esprimersi nella sua lingua, il tedesco, adottando l’ inglese, il francese e l’italiano. Breuer applicò la “cura parlata”, che senza dubbio è la tecnica ancora oggi usata in tutte le forme di psicoterapia. Breuer ricorse anche all’ipnosi, ma soprattutto escogitò un metodo per estirpare le sue emozioni negative dalla loro origine: le memorie inconsce.
Per Freud questa fu la svolta. Andò all’ospedale Salpetriere e raccontò tutto a Charcot. Il grande luminare francese mostrò indifferenza. Freud tornò a Parigi e iniziò il suo percorso (nel frattempo Bertha guarì). Breuer va visto come l’autentico pioniere. Freud elaborò teorie e pratiche aggiunte, partendo dal considerare essenziale la sessualità (fu per questo punto che Breuer e Freud posero fine al loro sodalizio). Sigmund, l’astro nascente, pubblicò L’interpretazione dei sogni nel 1900 (in realtà era pronto l’anno prima, ma l’autore lo volle far coincidere col nuovo secolo) che lui stesso definì “il fondamento più sicuro della psicoanalisi”. Dalle prime mille copie la strada verso il best seller era segnata. La pruriginosa società austriaca guardò male all’importanza che veniva data alla sessualità. Intanto Freud rafforzò la convinzione per cui andavano approfonditi concetti come conscio, preconscio e inconscio. L’inventore del lettino terapeutico non rubò nulla a certi colleghi, ma è certo che mise armonicamente insieme svariati elementi intuiti e studiati da altri. Ed è assurdo negare che la comprensione di Freud delle “forze primarie” derivava direttamente dalla scienza dell’800, soprattutto da quel settore della fisica chiamato “dinamica”.
Nel ’38, a causa delle leggi razziali emanate dal suo pazzo connazionale, emigrò in Inghilterra. Sulla nave pare avesse detto che stava portando oltremanica “la nuova peste”. Lo straordinario seme dell’analisi attecchì soprattutto negli Stati Uniti. Come ho accennato all’inizio, la psicoanalisi è ancora una volta al centro dei nostri interessi. E allora conviene leggere l’agile saggio dello psichiatra Vittorino Andreoli (Freud, sette lezioni sulla psicoanalisi; Marsilio, 123 pagg., 15 Euro). Andreoli ha lo straordinario merito di spiegare tutto. E bene. Anche negli autobus o nelle sale da the.